domenica 24 febbraio 2013

Vade retro, tablet!


Quando ho cominciato ad andare a scuola, nel 1966, usavo la penna con il pennino e l’inchiostro.
Per tutte le elementari mi sono arrangiata con il calamaio, la carta assorbente e le macchie sulle dita e quando si passò alla stilografica mi sembrò una rivoluzione epocale.
Conservo ancora i miei quaderni delle elementari: sembrano miniati da un monaco benedettino, ma sono bellissimi. 
I nostri libri erano terribili a riguardarli ora, avevano una grafica poverissima e sembravano tutto fuorché libri per bambini.
Ma la nostra immaginazione volava lo stesso, anche perché a casa avevamo i fascicoli delle fiabe sonore, quelle con i vinili a 45 giri e il libro illustrato.
“A mille ce n’è, nel mio cuore di fiabe da narrar...” era l’inizio della canzoncina che apriva ogni racconto, un sistema super tecnologico degli anni ’60 per far leggere i bambini. 
Perché nessuno di noi, neppure il più pigro, si sarebbe accontentato solo di ascoltare il disco senza sfogliare e seguire la lettura su quegli album illustrati, con le figure bellissime che ogni tanto ci sforzavamo di copiare, o di ricalcare appoggiando le pagine a un vetro.

Verso la quarta elementare abitavo vicino all’Antoniano, dove c’era un mercato dell’usato. Si trovavano anche i libri e il mio divertimento più grande era andare a scovare, selezionando intere montagne di volumi di tutti i tipi, qualche romanzo per ragazzine della collana “Betty” della Capitol, di cui andavo pazza. 
Con la paghetta mi acquistavo un libro nuovo, se mi piaceva me lo tenevo, altrimenti lo andavo a scambiare con un altro che trovavo all’Antoniano, che talvolta tenevo per un giorno solo, giusto il tempo di leggerlo e di decidere se tenerlo o scambiarlo di nuovo. 
Ormai quelli del mercato dell’usato mi conoscevano -una bimbetta magra e lunghissima, bruttina, con occhi enormi sotto le lenti degli occhiali- me lo lasciavano fare e a volte, addirittura, se mi vedevano indecisa tra due libri, me li davano entrambi. 
Ne ho divorati una quantità incredibile, poi sono passata ai gialli, poi...
Libri, meravigliosi, belli da sfogliare, con quel profumo di carta stampata che sta al terzo posto degli odori buonissimi dopo il pane appena sfornato e la pioggia d’estate, libri che non so più dove mettere, che ora riesco a leggere così poco perché sono sempre troppo stanca, o indaffarata, o poco concentrata, ma comunque c’è l’estate per ritrovarmi con una fame di libri che devo saziare, libri, che belli che sono i libri...
Sono cresciuta così, con i libri tra le mani e l’inchiostro sulle dita.
Sì, certo, anche tantissime altre cose: mi hanno insegnato a ricamare, a usare ferri e uncinetto, a confezionare semplici abiti, a fare la pasta a mano, tutte cose che so ancora fare, più o meno bene e che nella vita mi sono servite, se non altro per rilassarmi, fermarmi, concedermi il tempo di pensare, imparare a concentrarmi.

Utilizzo il computer da più di vent’anni. All’inizio lavoravo con una primitiva versione di Windows, credo il 3.1, e avevo un pc enorme che ho imparato ad usare da sola. Le ho viste tutte le versioni di Windows, finché non sono passata al Mac due anni fa. 
Sono bravina, per essere una ragazza dei sixties e non aver mai aperto un manuale di informatica. 
Vado a intuito, per prove ed errori, ogni tanto mi vado a cercare istruzioni online e ho una gran pazienza, forse quella che ho imparato scrivendo con il pennino, cercando libri nei mucchi, o lavorando all’uncinetto.
Perché io credo, da antica quale sono, che il percorso sia più importante del risultato e che, salvo se si deve prendere un treno, non ci sia alcun bisogno di avere fretta. 
Mi rendo conto che la tecnologia offre infinite possibilità, bypassa molte difficoltà, mette in comunicazione in tempo reale milioni di solitudini diversamente declinate, ma mi rendo anche conto che per certi aspetti ne sono diventata schiava anche io. 
Per la paura che mi ha presa di perdere la musica raccolta pazientemente sul computer negli ultimi dieci anni, mi sono comperata un server domestico e il mio amico Mauro -altro ragazzo dei sixties- è venuto dalla Brianza per configurarmelo. 
Con calma, nel frattempo aveva da cucinare una cassouela.
Va bene, la Brianza non è la Silicon Valley e io non ho in casa il server della NASA, ma è per dire che noialtri siamo cresciuti a pasticci sui quaderni e libri poverissimi, ma ce la caviamo molto bene anche con le faccende moderne, mentre restiamo legati alle nostre tradizioni antiche.

A scuola vogliono dotare i bambini di tablet, che all’inizio sostituiranno i libri e i notes per gli appunti, poi con il tempo anche i quaderni.
Il progresso ce lo chiede. 
Non sanno allacciarsi le scarpe, non sanno ritagliare, alcuni arrivano a scuola che non sanno neanche tenere in mano la matita e la maggior parte esegue i compiti senza leggere la consegna. 
Tutti sono accomunati dall’essere concentrati solo sul risultato e dal considerare la velocità un valore.
L’applicazione regge per poco, degli errori non deve restare traccia e spesso li si vede che si accasciano sul banco, scrivono con il mento appoggiato al foglio del quaderno e se potessero avere un telecomando in mano, la maestra sarebbe solo una delle tante schermate di uno zapping annoiato. 
Per fortuna non hanno un joystick, altrimenti proverebbero a spararmi.
Perché quelli, invece, li sanno usare benissimo, anche se nessuno glieli insegna. Sanno usare il cellulare meglio di me e non c’è gioco di velocità al computer nel quale non darebbero dei punti a qualsiasi ingegnere elettronico cinquantenne. Hanno i pollici più veloci del West.
Sono nativi digitali, sono già nati programmati con le conoscenze rudimentali dei genitori e sono stati sempre immersi nella tecnologia da quando hanno emesso il primo vagito, monitorati, filmati e fotografati in tempo reale da apparecchi digitali. 
Un nanosecondo dopo aver visto la luce viaggiavano già nell’etere tramite MMS, salutati da uno schermo da parenti e amici.
A volte ti chiedono basiti cosa sia un pettirosso, ma sanno riconoscere un iPhone.
A questi bambini il tablet non bisogna darlo, per nessun motivo al mondo.
Li si priverebbe del fruscio delle pagine dei libri, degli esercizi pazienti di bella calligrafia -cioè di grafia bella bella, per i grecisti- si toglierebbe loro il piacere di assaporare l’odore di vaniglia di certe pubblicazioni per i bambini, di guardare le figure e di provare a copiarle.
Nessun bambino può ricalcare un disegno da un tablet: se lo appoggia su un vetro non diventa trasparente.
Gli si negherebbe il diritto di sbagliare e di vedere i suoi errori, perché il computer corregge tutto e non ne lascia traccia, talvolta è lui stesso a dire dov’è lo sbaglio e come si può rimediare, sollevando chi lo usa dal pensare, tanto alla fine tutto sarà perfetto senza che rimanga alcun ricordo del percorso, meglio ancora che nei videogiochi dove finiscono le vite e tocca aspettare che si ricarichino.
Non dobbiamo dare un tablet in mano a un bambino di sei anni, ma neanche a uno di dieci, o di tredici, perché di oggetti elettronici ne hanno tra le mani già troppi e il confine tra funzione e gioco non lo conoscono. 
Non glielo dobbiamo dare per nessun motivo al mondo perché sono già schiavi della tecnologia e perché di questo passo non sapranno più scrivere, né contare, né riconoscere da soli se 6 x 8 fa 48, o 1.345, un altro numero a caso, perché perderanno il gusto di farsi domande e creare problemi, completamente  intorpiditi dal non uso del corpo e della fantasia.
Non si deve dare un tablet a un bambino perché è vero che ora l’accesso a qualunque informazione è a portata di un clic, ma la capacità di filtrare e selezionare tutti questi dati viene dall’esperienza, quella che si fa pensando, sperimentando, osservando, ascoltando, disegnando, annusando, sbagliando, cercando e tutti i gerundi antichi che vi vengono in mente.
Con calma, prendendosi tempo.
Bisogna cercare di limitare più possibile la tecnologia nella vita di un bambino e lasciarlo essere un bambino, tanto è già capace di usare questi aggeggi.
Bisogna insegnargli a vivere senza tecnologia, a metterla al suo servizio, non a esserne schiavo, altrimenti l’unico uso che farà del cervello sarà per comandare i pollici, e poco importa se sono opponibili.
Quello che della tecnologia non sa, lo imparerà da solo, come ho fatto io, come ha fatto il mio amico Mauro, come abbiamo fatto tutti noi cresciuti con mezzi poveri, ma con il nostro mezzo più potente e sofisticato sempre in attività.
Quello che vorrà o dovrà imparare di più, lo imparerà quando sarà in grado di avere, come noi, un’uscita di sicurezza in caso di blackout.





sabato 16 febbraio 2013

Cucino ergo sum


Ci sono donne che, come me, hanno trascorso buona parte della loro vita ad occuparsi degli altri: genitori adolescenti, uomini irredimibili, figli da crescere, questioni di minuteria quotidiana , problemi di sopravvivenza, cani, gatti, amici in crisi, piante che appassiscono sul balcone. 
Tutto ciò, tuttavia, mantenendo una forte inclinazione all’introspezione e ai massimi sistemi, in uno sforzo costante di applicare grandi costrutti filosofici anche al basilico avvilito in terrazza.
E’ faticosissimo, frustrante e i risultati, fatti salvi i figli, di solito sono deludenti.
Poi ad alcune, come a me, accade di averne le scatole piene: i genitori superstiti sono invecchiati senza diventare adulti, gli uomini si redimano da soli se vogliono, i figli decidano della loro vita; tutto il resto si gestisce anche con la mano sinistra, visto che sulla destra già ci abbiamo fatto il callo. 
E quanto al basilico,  io uso quello surgelato e non se ne parli più.
Ed è così che d’incanto si svincolano i massimi sistemi e ci si può dedicare all’introspezione con tutta calma, scoprendo faccende insospettabili persino mentre si è in fila alle Poste.
Il curioso effetto collaterale di tutto ciò, è che il pentolone, che avevo tenuto a lungo sotto pressione, a me è esploso prima di aver maturato sufficiente pratica per convogliarne il materiale in direzioni ordinate e, soprattutto, nuove rispetto ai vecchi schemi.
La conseguenza è che cucino, come una pazza, quasi che tutta la mia strabiliante forza interiore abbia bisogno di poter vedere risultati immediati, pratici, assaporabili, che non lascino spazio agli scettici.
Conosco i miei raptus: ho confezionato coperte all’uncinetto, intessuto decine di sciarpe, creato deliziose cornici decoupate, concepito braccialetti colorati con le perline, tinteggiato pareti, realizzato imponenti opere idrauliche sotto il lavello della cucina e nel frattempo ho anche scritto milioni di pagine che non pubblicherò mai perché parto di pura follia, ma nulla come la cucina riesce ad unire la mistica ai sensi, tutti i sensi.
Eros vittorioso deflagra nelle terrine.
Così, mentre mi dedico ad una riflessione sul tempo, fa capolino un’ipotesi di polpettone farcito, ed ogni appiglio a pensieri alti sul baratro della relatività delle misure, cede miseramente di fronte al dramma della natura irredentista del ripieno.
Laddove mi punge vaghezza di riflettere sulla mia burrascosa vita sentimentale e sul suo reiterato karma, ora dismesso, si materializzano nella mia mente abbinamenti di dubbia congruenza, ma stupefacente originalità, da infagottare in bocconcini di pasta fatta a mano.
Prendermi cura dell’autostima di cui mi sono privata a lungo, mi porta inevitabilmente ad una certa sicumera sulla mia genetica abilità nell’ambito dei fritti, eredità della meravigliosa nonna romagnola.
Il pensiero svicola su elementi di mera sensualità e ci si perde, alimentando un circolo turbinoso di scoperte di me, alle quali corrispondono altrettante potenziali ricette.
Quando la tensione diventa insopportabile, agisco.
Totalmente fuori controllo, ignoro il buon senso che mi suggerirebbe di prestare quantomeno attenzione alle quantità, alle possibilità di smaltimento sostenibile, alla capienza del frigorifero. Stivo con la stessa smania di chi dovrà a lungo sopravvivere in un bunker, ma animata da un impeto creativo che travolge ogni considerazione morale sulla fame nel mondo.
Ho tentato di mettere in atto strategie di contenimento, a dire il vero: ieri ipotizzavo di iscrivermi all’università per prendermi la benedetta seconda laurea alla quale rinunciai anni fa, oggi volevo scrivere un pezzo su Massinissa e sui pretesti ricorrenti per fare guerre, ma tutto questo non perché non abbia voglia di cucinare, bensì perché a pranzo sono da sola, in frigorifero giacciono una ciotola di tortelloni, mezza teglia di parmigiana di melanzane, un arrosto, tre terrine di zuppa di cipolle, un paio di chili di biscotti, mezzo barattolo di ragù, e per fortuna il pollo al cartoccio e i primi biscotti – invero buonissimi, ma non belli- sono stati polverizzati ed è terminata la stagione della sacher e del mascarpone. Resta tuttavia l’opzione di realizzare una bavarese all’arancia e di friggere la mozzarella in carrozza, ma mi faccio forza.
Questo risorgimento interiore e i moti di insurrezione gastronomica che ne sono derivati, sono iniziati in sordina, un po’ a macchia di leopardo, già durante le feste natalizie. Sono stati accolti con molto favore dai miei figli, abituati a mangiare tanto e quasi sempre bene, ma ora li vedo provati e per sostenere il morale delle mie truppe sono spinta ancor di più a diversificare la proposta.
Se la faccenda dovesse durare ancora a lungo, o si ragiona seriamente su un progetto imprenditoriale di catering, o i ragazzi potrebbero esplodere, dando luogo all’imbarazzante situazione di una madre in fase culinaria compulsiva con due figli a dieta.
Che fare dunque?
Il processo di liberazione di energie è inarrestabile, né lo arresterei se potessi farlo, ma più lo alimento, più mi dedico all’alimentazione; più mi conosco, mi riconosco e mi piaccio, più vengo attratta dalle alchimie del cibo; bloccata in casa dal mal di schiena non posso neppure andare a fare una passeggiata con il cane per godermi l’anticipo di primavera, tanto so già che andrei a fare la spesa.
Devo assolutamente trovare una valvola di sfogo, che mi dia la stessa sensuale gioia di vivere.
Magari mi metto a scrivere sul serio, forse sarebbe ora.




<panini casalinghi integrali e ai cinque cereali>

martedì 12 febbraio 2013

La Truzzeide- cap.2: Per un approccio scientifico al problema della truzzità


La truzzità non è solo uno stile di vita, o un modo del pensiero: è una vera e propria tendenza dell’essere, un fenomeno sociale mai abbastanza studiato.
La truzzità si manifesta in maggiore o minore grado secondo un modello epigenetico, e pur tenendo conto che se a fronte di una naturale inclinazione verso la truzzità estrema a nulla possono l’ambiente e l’educazione, vale anche il ragionamento inverso: un vero truzzo o lo sei, o non lo puoi diventare.
Tuttavia tutti possediamo una certa percentuale di truzzità, anche se talvolta così bassa da non risultare rilevabile a occhio nudo.
Poiché negli ultimi tempi il fenomeno ha cominciato ad assumere connotati importanti e la percentuale di truzzi sta cominciando a preoccupare per il suo forte impatto sociale, di recente è nata la Truzzologia -branca delle scienze sociali e allo stesso tempo giovane ramo delle neuroscienze-  e sono stati elaborati protocolli di truzzometria applicata sui quali tuttavia non c’è unanime accordo all'interno della comunità scientifica internazionale.
In particolare il gruppo di Palo Alto in California, sottolineando la necessità di un approccio olistico al fenomeno, ha costruito un protocollo truzzometrico (Analytical Test of Truxity, o ATT) che avrebbe dovuto fornire risultati abbastanza precisi e consentire di individuare cinque livelli di truzzità, attribuendo a ciascuno di essi un indice di contenimento sociale e una relativa previsione di educabilità del soggetto truzzo (TLI, Truxity Level Index).
Applicando una metodologia che ha come riferimento la psicologia della Gestalt, sono stati somministrati alcuni pattern di stimoli ad un gruppo composto da duecento soggetti maschi e femmine di età diverse, diversi gradi di istruzione e diverse provenienze sociali e geografiche ed è stato osservato come gli input sono stati selezionati, elaborati e riorganizzati per affrontare alcuni problemi ai quali è stato chiesto di dare una soluzione.
Ne sono emersi due livelli estremi di truzzità, corrispondenti rispettivamente al valore 0 e al valore 100 di un range, il primo evidenziato da un atteggiamento garbato e riflessivo, il secondo da irrequietezza, turpiloquio e dalla reiterazione di un’unica frase, che tradotta dalle diverse lingue è risultata uguale per tutte le etnie: “Ti spezzo le ditine”, accompagnata da secchezza alle fauci.
All’interno di questo range si sono poi potuti individuare i cinque livelli di truzzità, i cui indicatori sono sempre riferiti a valori medi, presentandosi con minore o maggiore intensità all’avvicinarsi ai valori estremi di ciascun livello. 
Gli indicatori evidenziati nella bozza dello studio californiano hanno valore di esempio, ma non costituiscono la totalità delle manifestazioni truzze, perciò si può includere un soggetto esaminato in una fascia TLI del range solo se presenta almeno tre valori di truzzità positivi tra quelli elencati in una lista alquanto dettagliata elaborata dai ricercatori e pubblicata a parte.
Vediamo dunque le cinque fasce TLI:

TLI ≤ 20 truzzità lieve. Si tratta di un fenomeno fisiologico, generalmente trascurabile e completamente educabile. Tende a scomparire con l’avanzare dell’età e resta perlopiù latente per tutta la vita, manifestandosi solo in situazioni di particolare esposizione a stimoli esterni stressanti, come la guida nel traffico, la fila agli Uffici Postali, la curva allo stadio, un comizio politico.

TLI >20 - ≤ 40 truzzità medio-lieve. É un livello di truzzità che reagisce fortemente agli stimoli ambientali ed educativi, nonostante i quali tuttavia tende a manifestarsi con modalità socialmente inoffensive, come piccoli tatuaggi, rutti contenuti solo dopo un bicchiere di Coca Cola, improvvise ma sporadiche comparse di calzini bianchi con i mocassini, telefonate in treno o in autobus con volume di voce percepibile fino a tre metri di distanza. Non scompare mai del tutto, ma regredisce fino a raggiungere livelli di quasi completa latenza.

TLI >40 - ≤ 60 truzzità media. Parzialmente educabile, è il livello di truzzità più diffuso nelle popolazioni dei paesi ad alto livello di sviluppo e si palesa con una certa frequenza assumendo talvolta connotati piuttosto fastidiosi, quali per esempio giocare a pallavolo in piscina, tenere l’auto accesa per venti minuti mentre si saluta la fidanzata (o il fidanzato), sincerarsi periodicamente con le mani della presenza del pacco, telefonare in treno o in autobus con volume di voce percepibile fino a dieci metri di distanza. Regredisce lentamente, ma rimane sempre manifesta.

TLI >60 - ≤ 80 truzzità severa. Non educabile, ma parzialmente attenuata  e lievemente reversibile con l’avanzare dell’età, colpisce con percentuale più alta nei maschi di razza bianca, ma è in aumento tra le femmine delle ultime generazioni. Si manifesta sempre e tende a diventare forte fattore di aggregazione. Ne sono indicatori tipici il turpiloquio, la bestemmia, l’argomentare con minacce, il rutto libero, la musica ad altissimo volume nello stereo dell’auto alle tre di notte, il possesso di auto molto potenti parcheggiate sul marciapiede, il volume della voce percepibile per un intero isolato.

TLI >80 - ≤ 100 truzzità estrema. Irreversibile. Colpisce solo i maschi ed è caratterizzata da tutte le peggiori esternazioni dei precedenti livelli, ma portati all’eccesso e ostentati con fierezza. E l’unica che si manifesta con il calzino corto con i sandali, la presenza del marsupio, il grugnito come forma privilegiata di comunicazione, il peto acrobatico nel cortile condominiale e la suoneria del cellulare degli Oliver Onions.
Il Truzzo ha un TLI= 107.




I risultati della ricerca dell’equipe di Palo Alto sono stati tuttavia confutati da parte della comunità scientifica che ha costretto i ricercatori stessi a sottoporsi ad ATT. Quando a tre di loro sono stati attribuiti TLI intorno a 75, tutta la ricerca è stata invalidata.
Attualmente è allo studio in Olanda un apparecchio che, sul modello del Dynamizer di Abrams, dovrebbe essere in grado di individuare il Truxity Vibratory Rate (TVR) e di fornire pertanto dati obiettivi di grande precisione, anche se per avere indicazioni sull'educabilità dei soggetti truzzi occorrerà aspettare ancora molto tempo.
Pur essendo ancora lontani da una soluzione definitiva, la comunità scientifica si sta dimostrando molto sensibile al problema e si cominciano a stanziare anche finanziamenti pubblici, destinati a sviluppare una ricerca a largo raggio, che individua nella prevenzione e nella lotta alla truzzità fattori chiave per lo sviluppo e la crescita della società nel medio-lungo periodo.

-continua-



<Trattandosi di opera di fantasia, ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale>





lunedì 11 febbraio 2013

La Truzzeide - cap.1: L'amor cortese


Una cosa è certa: il Truzzo e la Truzza si amano.
Ecco, non pensate all’amore romantico dei film, non pensate ai deliziosi fidanzatini di Peynet abbracciati sulla panchina, alle poesie di Prévert, ai chiari di luna o alle rose rosse in comode dozzine.
Il Truzzo e la Truzza si amano in modo rustico e pragmatico.
Lui non è un adone ed è un uomo totalmente privo di fascino, lei forse sarebbe anche carina, pur con le sue fattezze da boiler, se la truzzità non facesse da schermo, ponendo in ombra qualsiasi dote le si potrebbe attribuire.
Nonostante questo, è evidente che esercitano l’uno sull’altra un appeal irresistibile, si piacciono, si capiscono, si integrano e si completano.
In un certo senso - non lo dico per scherzare- sono da invidiare.
Da quando sono costretta a frequentarli dalla mia posizione di vicinato, mi sono talvolta chiesta come possa essere andata tra loro, cosa il Truzzo marsupiale possa averle detto per indurla a uscire con lui, con quali motti di spirito l’abbia irretita facendola invaghire. 
Capisco bene di essere di parte, ma sono convinta che una giovane donna, pur cilindrica e con la grazia di un primate involuto, possa esercitare comunque una fascinazione su un maschio, specie se di indole profondamente truzza quale è lui, ma cosa possa aver trovato lei in lui mi sfugge, è un mistero di portata cosmica come il ragionar d’infinito.
Mi sforzo di formulare un pensiero in merito e ho solo davanti un enorme e sconcertante punto interrogativo, ma tant’è.
Si amano e lo rimarcano in ogni momento.
Lei gli grida dalla terrazza: “Ammoreeeee” con tono ascendente della e finale, prolungata al limite dell’inquinamento acustico.
Lui, dal cortile le risponde: “Grooowl” con tutta la possanza maschia di cui trasuda, sicuro di sé, virile, quasi epico, brandendo una brugola con la quale sta lambiccando su qualche progetto avveniristico.
Anche il Truzzo chiama la Truzza "amore", ma lo pronuncia in modo tronco, come se dicesse "amorè", richiamo al quale lei risponde con un growl acuto, quasi il cinguettio sgraziato di un canarino mannaro.
Quando lavorano insieme, spesso lui inframezza alle bestemmie battute senza senso alle quali lei ride moltissimo, o risponde in modo altrettanto insensato in uno scoppiettante dialogo che dalla mia finestra suona assolutamente surreale.
Quasi sempre, mentre fanno qualcosa insieme, su quella terrazza che sembra aver bisogno di manutenzioni straordinarie quotidianamente, lui si produce in lunghe e articolatissime invettive sul padre di lei, lo suocero benefattore che ha comprato la casa. Il perché non l’ho ancora capito.
La Truzza tenta di reagire alla prepotenza oratoria del Truzzo, ma con scarso vigore, e dopo qualche blando tentativo di difesa del padre, si lascia smontare da un paio di bestemmie ben assestate e dal classico: “Gli spezzo le ditine, va' là va' là”, che pare avere la potenza persuasiva di una catilinaria di Cicerone.
Non si pensi tuttavia che la Truzza sia succube del marito: ogni tanto gioca sulla gelosia e lo minaccia, ma lui risponde con versi gutturali evidentemente rassicuranti e si sente che torna subito l’armonia.
A volte lo sgrida perché non ha fatto qualcosa come doveva, ma la prospettiva di lasciarci le ditine a sua volta la riporta subito a toni più accomodanti.
La Truzza è molto fiera della somiglianza del figlioletto al padre. 
La scorsa estate le ho sentito dire con compiacimento: “Oh, ammoreeee, questo bambino è proprio figlio tuo, senti che rutti che fa! ”
Lui ha sottolineato la soddisfazione con un grugnito.
In effetti il Truzzo rutta in modo spettacolare e molla peti acrobatici, quasi sempre accompagnato dal plauso della Truzza, o da suoi salaci commenti.
Il Truzzo russa anche così forte che d’estate devo mettere i tappi nelle orecchie per dormire, e un’altra cosa che non mi spiego è come la Truzza possa prendere sonno accanto a una simile trebbiatrice. Io ho avuto per sei anni un compagno che russava e varie volte ho tentato di soffocarlo con un cuscino.
A quanto pare lei dorme, anche se durante la notte sento che tengono il televisore acceso, neanche a dirlo con il volume altissimo, quasi sempre su film western, forse sempre lo stesso, come si evince dai dialoghi tra un tal Gringo e un altro tizio a cavallo che gli spara.
Nonostante siano così chiassosi, non li sento mai avere rapporti sessuali, quindi  le ipotesi sono tre: 1) non hanno rapporti sessuali, ma non mi sembra possibile; 2) è l’unico momento in cui sono silenziosi, anche se non pare probabile; 3) hanno rapporti sessuali molto frequenti, durante i quali lui la chiama Gringo e lei nitrisce e all’apice del piacere spara vari colpi con una colt.

Comunque è certo che si amano e sono fatti l’uno per l’altra.



 -continua-

<Trattandosi di opera di fantasia, ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale>


domenica 10 febbraio 2013

La Truzzeide: Prologo


Per chi ancora non lo conoscesse, premetto che il Truzzo è il mio vicino di casa.
Sarebbe più corretto se scrivessi “è un”, ma posso garantire che quell’articolo determinativo se lo merita tutto.
Fino a quattro anni fa la situazione del vicinato era piuttosto tranquilla, a parte la pazza del piano di sotto che mi minacciava di morte un paio di volte alla settimana e l’agitato di fianco che ogni tanto dà di matto per le scale, poi è arrivato il Truzzo e la situazione è sensibilmente cambiata.
Si è trasferito nell’appartamento dall’altra parte del cortile, quello con la terrazza grande, quello sul quale affaccia la finestra della mia camera da letto.
Lui è al piano rialzato e non può vedere me; io sto al secondo piano e posso vedere tutto quello che fa, anche se non me ne frega niente e ne farei volentieri a meno, ma purtroppo lui mi coinvolge nella sua vita mio malgrado.
Il Truzzo ha una moglie, la Truzza, e un figlio, il Truzzino.
Quando la famigliola si è insediata qui, all’inizio dell’estate di quattro anni fa, avevo totalmente sottovalutato la forza dirompente della loro presenza, imputando tutto il chiasso che hanno fatto alle manovre del trasloco e allo shock da adattamento.
Certo, mi ero resa conto che non si trattava di una giovane coppia radical-chic, ma la mia indole ottimista mi aveva impedito di notare alcuni preoccupanti indicatori che, anche senza voler essere lombrosiana, mi avrebbero dovuta mettere in allarme.
Sì, perché il Truzzo più che un uomo è un archetipo.
Ha un’età indefinita tra i trentacinque e i quarantacinque anni, è bassotto, tarchiato, con le gambe storte, la fronte bassa, il naso aquilino, i capelli lunghi tenuti raccolti con il codino, l’espressione e la postura da homo habilis.
Si esprime in modo -diciamo così- piuttosto schietto, con discorsi essenziali coloriti da grugniti.
Bestemmia a livello olimpionico: anche se non brilla per fantasia, ci mette della potenza, il classico centravanti di sfondamento che sfrutta le doti fisiche più che la classe, e che se tira una saracca non mira all’angolino all’incrocio dei pali, ma dritto al portiere e lo abbatte come una fucilata.
Parla sempre a voce altissima, incurante dell’orario, del pubblico, dell’interlocutore e dell’argomento di cui tratta.
Si veste come ci si immagina si possa vestire un truzzo: pantalone in pelle nera, bomber e scarponi chiodati in inverno; canottiera, pantaloncini e sabot in estate. 
Talvolta canottiera anche in inverno, quando in certe belle giornate terse, ma gelide, esce in terrazza sprezzante del freddo e tronfio come un highlander a mostrare l’ascella pezzata.
Non si separa mai dai due accessori indispensabili a un truzzo, cioè il cellulare ipertecnologico e rumorosissimo e, soprattutto, il marsupio in similpelle nera, sotto il quale -ne sono certa- nasconde  una terza ascella di riserva.
La moglie, altrettanto truzza, pur essendo un esemplare interessantissimo dal punto di vista antropologico, di fronte allo spessore del Truzzo è evidente che brilla di truzzità riflessa.
Dicevo che all’inizio non mi ero accorta del tipo di personaggio, ma posso invocare come attenuante il fatto che sono solita farmi i fatti miei, perciò ho dato un’occhiata di sfuggita a questi nuovi vicini e non me ne sono preoccupata più di tanto finché non ho sentito la prima telefonata del Truzzo.
Anzitutto la suoneria del cellulare mi è parsa subito un atroce contrappasso: Dune Buggy degli Oliver Onions.
Suonava ogni dieci minuti, a tutte le ore, a volume altissimo, con quell’odioso coretto strombettante che al Truzzo evidentemente piace moltissimo, perché non rispondeva subito neppure se il cellulare ce l’aveva in mano.
È stata una mazzata psicologica.
Era estate, tenevo le finestre aperte e me ne stavo pacificamente in camera a leggere sotto il ventilatore a pale quando ho sentito la prima telefonata.
Io non volevo, lo giuro, ma il Truzzo non parla, grida.
La telefonata suonava più o meno così: 

Tuzzo: “ Digli che gli spezzo le ditine”
- Pausa per turno del malcapitato dall’altra parte.
Truzzo: “ Mi ha rotto il [organo erettile maschile], io gli spezzo tutte le ossa, [bestemmia]”
- Pausa per nuovo turno del malcapitato dall’altra parte.
Truzzo: “ Ma [bestemmia], che si...[a seguire una serie di pessimi auguri]
- Presunto tentativo di replica del malcapitato dall’altra parte.
Truzzo. “Vuoi che spezzi le ditine anche a te? [bestemmia, seconda bestemmia, ripetuto due o tre volte tipo ritornello].

Ecco, il tenore della telefonata media era questo. 
Se si trattava di fornitori, iniziava apparentemente calmo e finiva in escalation, risparmiando le bestemmie per il dopo telefonata, come si accende una sigaretta per gustarsi il piacere dopo l’amore.
Se si trattava di sua madre, le augurava di affogare ridendo come un pazzo.
Se si trattava dello suocero, alla bestemmia si aggiungevano anche taluni improperi, con tutto che ho poi saputo che la casa gliel’ha comperata lui.
Già, perché il Truzzo non lavora.
Non è disoccupato, nel senso che vorrebbe lavorare, ma purtroppo non può farlo, no: lui non lavora.
Lavora la Truzza, lui sta a casa e si occupa del Truzzino e di grandi opere domestiche.

Da quella prima telefonata, non ho avuto più pace.
Il Truzzo ha invaso il cortile con i suoi schiamazzi, le sue facezie terribili, i suoi dialoghi con la Truzza, le stupidaggini che dice al Truzzino, le sue monumentali opere in terrazza e in giardino, le serate di gran classe con gli amici, dalle quali mi salvo solo tenendo tutto il tempo le cuffie sulle orecchie.

Chi già sa di lui sono certa che sarà ben felice di sapere che una sezione del blog sarà dedicata alle sue mirabolanti avventure, chi non lo conosce sappia che non è finita qui, perché questa è solo la prima puntata della grande epopea del Truzzo: la Truzzeide.

Per ora metabolizzate il ritratto del Truzzo che ho eseguito la scorsa estate, in un momento di particolare ispirazione.



<Trattandosi di opera di fantasia, ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale>


sabato 9 febbraio 2013

Gentile Signore


Gentile Signore…
(già mi rendo conto che un simile inizio sarebbe più adatto ad un volantino che pubblicizza una gita ai castelli della Loira, due giorni tutto compreso a 18,99 euro, con relativa vendita di pentole)

Gentile Signore…
(la esse maiuscola forse merita di essere scritta, approfittando della varietà tecnologica, come minimo in un "Algerian" grassetto)


Gentile Signore,
l'incipit è un po' faticoso, già mi perdo sulle strade secondarie dei miei pensieri e mi scuso in anticipo se non sarò in grado di rivolgermi a Voi come si conviene, ma non essendo inglese pratico il sesso con entusiasmo e non ci azzecco con la seconda persona plurale.

Gentile Signore,
rivolgermi alla Vostra eterea nonché pervasiva presenza mi risulta anche ostico data la Vostra triplice essenza, che comporta problemi di grado superiore al dialogare con uno strabico guardandolo negli occhi: vengo purtroppo sopraffatta dall'imbarazzo di non sapere quale occhio, o di fronte a Voi quale Entità, guardare.
Vogliate considerare con benevolenza questa mia, atto di devozione dalla parvenza irriverente, poiché ben sapete che non sono pratica con le preghiere e pur nel dubbio di essere una grafomane, piuttosto che una scrittrice, ho maggiore disinvoltura nell'esporre le mie istanze su un foglio bianco invece che correre il rischio di addentrarmi nei meandri della mia logorrea.
So anche che come minimo Vi sarebbe dovuto il sacrificio di un capretto, che al momento non ho a portata di mano: si potrebbe ovviare immolando il cane, o uno dei gatti, ma ciò farebbe soffrire i bambini, e non credo che, nella Vostra incommensurabile bontà, vogliate le loro lacrime.
In ultimo, ad esaurimento dei preliminari di questo ideale dialogo, di cui Voi, pur tacendo, rappresentate il Sommo Interlocutore, faccio pubblica ammenda per la distrazione e l'incostanza con cui Vi rendo ossequio : questa mia lettera testimonia, senza calpestare il campo minato delle prove ontologiche, che sono mossa comunque da un certo possibilismo, se non da una fede robusta.
Considerato il fatto che ritengo di averVi chiesto ben poche cose nel corso di questa mia vita, vorrei pregarVi ora di rivolgere a me uno sguardo di benevolenza facendomi ritrovare la capacità di ridere, dono che avevo ricevuto al momento della nascita, custodito con cura per anni, poi improvvisamente perduto in un luogo che solo Voi, col Vostro infinito e sottile senso dell'umorismo, potete aver ideato.
Non che la depressione sia stata negativa: i benefici sono stati tali e tanti che posso solo esserVene grata, ma allo stato attuale delle cose sarei francamente un po' stanca, e l'unico a fruire ancora di effetti positivi rispetto a questa faccenda è il cane, che mi accompagna durante lunghe passeggiate nei campi. 
Per inciso, il cane stesso è maturato: ora è pienamente consapevole di essere meno veloce di una lepre, pertanto si arrende quasi subito.
Per quanto concerne la mia parte di lavoro, credo di averla svolta ed anche piuttosto benino, ma ora Vi chiedo di darmi una mano, perché mi rendo conto di non essere in grado di andare oltre se non si alleggerisce un po' il peso della carriola che mi è toccata in sorte. 
Nella Vostra onnipotenza, se fosse stato questo ciò che volevate da me - io mi dico- mi avreste fatta cavallo.
Se da me Vi aspettavate un atto di umiltà, ora sono qui ad offrirVelo, benché senza breviario, rosario e capo cosparso di cenere, senza ceci sotto le ginocchia e anche se il tono con cui mi rivolgo a Voi potrebbe apparire arrogante. 
Ne sono mortificata, non è mia intenzione mancarVi di rispetto: sto solo cercando di mantenere un briciolo di dignità e di mostrarVi che chi si rivolge a Voi non è un individuo strisciante che non ha più nulla da perdere, ma una persona intera che può chinare la testa perché sa tenerla anche alta.
Vorrei ridere: ho versato fiumi, laghi, oceani di lacrime, che sono diventati vapore, nuvole, pioggia e ancora lacrime di un elementare e doloroso ciclo dell'acqua; ora vorrei ridere.
Non appena la depressione me lo ha permesso, ho provato a scrivere il mio viaggio, ma qualcosa non vuole prendere forma, né voce, benché sia evidente che c'è. 
Forse dipende dal Karma?
Un'amica visionaria mi ha incontrata per un attimo nelle spoglie del guerriero che sono stata in qualche vita precedente - non fate il finto tonto, non siete così avulso da questo concetto: tenevo la spada sguainata e infliggevo morte inutile, sporcandomi col sangue le vesti preziose, cieca di fronte al dolore.
Nei momenti più cupi sono stata così vicina ad uccidere ancora, che spero mi perdonerete se, scrivendo i miei pensieri o dipingendo mandala, cerco di non usare né il rosso, né il nero.
Pare allora evidente che ridere è ora un bisogno e non uno sciocco desiderio.
Ho lasciato cadere l'idea, che mi affascinava in un primo momento, di ricorrere all'uso di droghe: non ne ho più l'età e mi piace restare cosciente; quanto all'alcool sarebbe piuttosto banale che una persona intelligente, quale io ritengo di essere, sostituisse la perdita di spirito con l'immissione in circolo di etanolo: il dizionario dei sinonimi e contrari va usato cum granu salis.
Non Vi ho chiesto in dono la vacuità, che non ho mai posseduto e che non ambisco a possedere, pur riconoscendo ad essa aspetti di non trascurabile utilità, Vi chiedo solo di rendermi l'ironia, quella punta di spillo che permette di ridere pur continuando a vedere con lucidità; di restituirmi il gioioso senso del teatro, della burla e del grottesco, che mi aiutava a non prendermi troppo sul serio pur senza smettere di credermi; di ridarmi la capacità di tradurre ciò che da buona psicologa riesco a notare intorno a me, in ciò che come cattiva scrittrice mi permette di far ridere me stessa e gli altri.
Vi prego di riconsegnarmi i doni che una volta mi avete fatto, e per i quali ora comprendo di non averVi mai ringraziato abbastanza.
In pratica, Vi chiedo, con tutta la poca umiltà di cui sono capace, di farmi tornare ad essere un po' meno umorale e un po' più umorista.
In fondo noi si lavorava insieme: i demoni, che io per prima conosco, fuggono esorcizzati da una sana risata come in virtù dell'Acqua Santa.
Vogliate dunque, Gentile Signore (considerate pure, in questo vocativo conclusivo, riccamente miniata in foglia oro la esse iniziale del Vostro unico e triplice nome), accogliere questa richiesta, di per sé ragionevole, e restituirmi ciò che mi appartiene entro e non oltre…
No, scusate, questa sarebbe una lettera di preghiera e non una ingiunzione, tuttavia perdonate la raccomandata con ricevuta di ritorno : Voi, nella Vostra onniscienza sapevate che Vi avrei scritto ancor prima che lo sapessi io, ma non metterei una mano sul fuoco per quanto riguarda il Maligno.
Oh, era una battuta? 
Avete per caso già provveduto? 


<Nel 1998 morì mia sorella, uno dei più grandi amori della mia vita, e nei due anni che seguirono mi ritrovai in piena depressione. Ne sono uscita trasformata, una donna più forte e molto migliore. Questo fu uno dei primi scritti della mia rinascita.>


giovedì 7 febbraio 2013

Chiedetemelo domani


Paolo e io ci conosciamo da trentotto anni e da almeno trentadue siamo molto amici.
La vita ci ha portati ad abitare lontani, perciò ci vediamo pochissimo, ma ci sentiamo con una certa frequenza, soprattutto per parlare della grande passione che abbiamo in comune: la musica.
Capita spesso che ci mettiamo a discutere e va sempre a finire che cominciamo a stilare classifiche o liste.
Una delle nostre preferite è la classifica dei dischi dei King Crimson, ma ogni volta che ne parliamo è diversa e concludiamo dicendoci: “Oggi è questa, ma chiedimelo domani”.
Già, perché domani l’ordine può essere cambiato, specie se dopo averne parlato cominciamo a riascoltarli tutti.

In questo momento, mentre sto scrivendo, il mio archivio musicale conta 952 artisti, 3276 album, cioè 34.762 brani, che equivalgono a 119 giorni, 2 ore, 54 minuti e 6 secondi di ascolti ininterrotti.
Oggi ho scelto un disco dei Caravan del 1971, ieri gli Steely Dan del 1974, l’altroieri un live di Fripp e Sylvian del 1993 e così via.
Li conosco benissimo, ascoltati mille volte, magari ci passo tutto il tempo libero con la cuffia sulle orecchie mentre sbrigo le faccende di casa, porto il cane a passeggiare, carico il carrello al supermercato.
Prendo un disco e lo ascolto anche più volte, magari lo mando in loop finché non mi ha svelato tutte le sue sfaccettature e questo accade sia con musica che ascolto da quarant’anni, sia con dischi pubblicati la scorsa settimana.
Una parte della musica che ho in archivio non mi piace, ma la tengo lì ugualmente, perché non conosco i percorsi del mio cuore, quindi potrebbe accadere che domani quello che ora mi muove un fastidio sconvolga tutto.
La musica ha milioni di sfaccettature e fa vibrare corde molto profonde.
Se ascoltassi sempre e solo le stesse cose, sempre e solo una ristretta rosa di brani che conosco e so di amare, alcune corde che ho non vibrerebbero, o addirittura non avrei mai scoperto di possederle.
Invece ci sono. 
Per il principio di risonanza, ogni nostra percezione necessita di una corrispondenza interna in grado di vibrare e di rimandarci una sensazione, fisica o emotiva. Se questa manca, l’aspetto della realtà ad esso relativo è come se fosse inesistente e non lo cogliamo, neppure se ne veniamo colpiti in pieno.
Quindi ciò che siamo in grado di comprendere del mondo che ci circonda, ciò che ci fa gioire o soffrire, è lo specchio di ciò che siamo.
Quando ascolto certi brani, c’è una sensazione di piacere che diventa sempre anche fisica, pare mutare la densità del sangue che scorre in me, sembra sciogliere grovigli o rispondere a bisogni.
Quando li ascolto tante volte, li riscopro dopo mesi -o anche dopo anni- questa sensazione si rinnova e si amplifica: una parte di me, infatti, li conosce e li riconosce, un’altra tuttavia è come vergine e pronta a recepire qualche dettaglio che immancabilmente c’è e che colgo per la prima volta, perché ogni giorno, ogni esperienza, ogni passo della mia vita mi hanno preparata a farlo creando risonanze nuove.
Allora c’è quell’attimo, quel passaggio, che fa esplodere una bellezza inaspettata, qualcosa che mi appartiene ma che non sapevo di avere.
Riconosco l’attimo preciso, potrei fare una lista del secondo esatto più bello dei brani più belli che conosco - credo che la prossima volta che ci sentiremo, Paolo ed io, glielo proporrò.
Me ne vengono in mente già alcuni: Starless dei King Crimson, quando alla fine si riapre il tema iniziale a 11:18; Dream Gerrard dei Traffic quando entrano le tastiere a 1:53 e il reiterare “with reality, with reality” di Steve Winwood e quella nota lunga del sax di Chris Wood a 5:47; la modulazione della voce di David Sylvian nel cantare “I’ll never let you down” in Wave; la pausa tra “cry” e “baby” che fa Janis Joplin in Cry Baby; il moog di Keith Emerson a 3:03 in From The Beginning...ne ho altri mille, potrei scriverci un libro, raccontando che cosa c’è dentro ciascuno questi attimi dei quali, come il clown di Heinrich Böll, faccio collezione.

Ecco a cosa servono trentaquattromilasettecentosessantadue brani.
Lo so che vivo nel mio mondo, spesso inaccessibile ai più, dove coesistono visioni ed emozioni, sensi e pensieri in una realtà composita tutta mia, ma penso che ognuno con le sue cose sia così, se ha una passione vera.
Questo ascoltare, riascoltare, scoprire e riscoprire è una continua ricerca di attimi fulminanti, di trucchi di radianza, come diceva Sylvia Plath a proposito dei miracoli.

Se oggi mi chiedeste la classifica dei dischi più belli dei King Crimson, direi: Lark’s, Lizard, In the Court, Red, Island, In the Wake...ma richiedetemelo domani.



mercoledì 6 febbraio 2013

Il dado


Immaginiamo un  grande dado. 
Ogni faccia è costituita da una fotografia di un uomo diverso.
Lanciamo pure il dado, magari facciamoci su anche una puntata: qualunque faccia esca, si perde sempre.
Questo era il mio karma sentimentale.
Quando finisce una relazione si rimane a lungo attaccate in modo ossessivo all’idea di quella persona -sempre l’ultima- anche se razionalmente la si è già demolita in frammenti piccoli come coriandoli. 
Si trascorre il tempo a pensarci, poi a pensare di non volerci più pensare, poi a pensare che non ci si è pensato più di tanto, finché non subentra un’altra persona e si comincia a pensare a quella, almeno fino a quando non si dovrà ricominciare a non volerci più pensare, a pensare di non volerci pensare, a pensare di non averci pensato, e così via.
L’ultimo uomo di ogni serie, quello contingente cioè, è stato inizialmente il traghetto per attraversare la fine della relazione con quello precedente, salvo che la sponda della salvezza non la si è mai raggiunta, ma si è rimaste a bordo di una barca scalcinata, spesso in acque turbolente, talvolta scaricate su un isolotto a metà strada, con a seguito pure il bagaglio affastellato durante tutte le traversate.
Si finisce ben presto nella situazione di chi si trova a contrarre debiti per pagare gli interessi dei debiti stipulati in precedenza, con il solo effetto di accumulare solo interessi passivi senza mai estinguere il capitale.
Per una sorta di horror vacui, sembra che la mente femminile non possa sopravvivere senza avere il pensiero di un uomo che la pervada interamente, e poco importa chi, come o cosa sia o significhi quest’uomo, basta che ce ne sia uno. 
Ho riflettuto a lungo sul mio caso personale, non diverso da quello di quasi tutte le mie amiche, e mi sono detta che un modo per liberarsi del pensiero di un uomo senza sostituirlo con un altro ci doveva essere. 
Così ho pensato all’ultimo e anziché sviscerare il perché fosse finita –del resto palese- attribuendo a lui tutte le colpe e a me tutta la stupidità del mondo, ho spostato l’attenzione su com’era cominciata: ovvio, per farmi traghettare fuori dalla storia precedente. 
Percorrendo a ritroso tutta la strada, anche il precedente era stato a suo tempo un traghetto, così come quello prima.
Uomini che quasi nulla accomuna tra loro e ancor meno accomuna a me.
Come primo passo per liberarmi dall’impiccio dell’ultimo uomo da sradicare dalla mente non mi è sembrato male, ma occorreva qualcosa di più, quantomeno per essere sicura di non ripetere nuovamente lo stesso errore. 
Mi è parso evidente, infatti, che se questa volta non avessi raggiunto la sponda della salvezza con le mie sole forze, mi sarei presto o tardi ritrovata esattamente come ora, solo con una nuova faccia e tutti i relativi momenti legati ad essa da dimenticare
E’ stato grazie ad una serie di conversazioni con amici  e ad una severa pratica buddista che ho avuto l’illuminazione: visto che gli ultimi sei uomini della mia vita avevano avuto tutti la stessa funzione, anziché pensare solo all’ultimo, avrei potuto pensare a tutti insieme, riunendoli in questo dado monoblocco che avrei potuto ruotare a mio piacimento senza che cambiasse assolutamente nulla di ciò che vedevo. 
Insomma, anziché dimenticarne uno, tanto valeva dimenticarli tutti, anche quelli già dimenticati da tempo. 
E mi sono resa conto che si trattava di un monoblocco di coglioni e che la visione di insieme era talmente improbabile da risultare persino comica. 
Ci ho speso anni di sofferenze per questi tizi, mai e poi mai avrei pensato che sarebbe bastato comprimerli in un unico dado per divertirmi a giocare con il loro ricordo. 
Dimenticare ricordando è una pratica innovativa, almeno nella mia vita.
Se tuttavia si trattasse solo di questo,vedrei solo una galleria di errori e ci sarebbe poco da scherzarci su. 
In verità è molto di più: anzitutto mi sono resa conto che la loro perfetta intercambiabilità, la totale indifferenza che deriva dal ragionare di uno piuttosto che di un altro, evidenzia infallibilmente un radicato problema mio e che loro non hanno nessuna colpa di essere coglioni, al più è un accidente della loro vita che non mi riguarda minimamente, ma non solo ora, che non fanno più parte della mia, bensì anche quando ero convintissima di amarli con tutta me stessa.
Non mi riguarda, né mi riguardava, perché come costoro fossero in realtà era una questione che non mi sono mai posta. Vedevo qualche dettaglio più o meno attraente, individuavo qualche interesse comune, sottolineavo qualche pregio spesso inesistente come se si fosse trattato di una rarità, ed ecco che avevo fatto del barcone scalcinato sul quale ero salita un lussuoso panfilo, che mi avrebbe portata a navigare nelle acque cristalline della felicità perfetta. Tutto da sola, loro ci hanno messo a malapena la faccia. Quando diventava lampante il mio abbaglio, allora scattava l’accanimento per trasformarli nelle persone che io avevo immaginato che fossero e se, a onor del vero, alcuni di loro hanno mistificato fin dall’inizio un’identità del tutto inventata, diciamo che io ho fatto la mia parte per assecondarli, a dispetto di ogni evidenza.
Ben lungi dall’essere mai riuscita a cambiare una virgola in loro, in compenso mi sono trasformata io, temporaneamente e a seconda dei casi, in ciò che non sono, lungo una linea schizoide che andava dalla più paziente delle donne sagge, alla più collerica delle donne nevrotiche, dando comunque sempre il peggio di me. 
A guardarmi alle spalle io stessa mi considererei una pazza furiosa, se non fossi certa di non esserlo e se non avessi conferma di ciò anche da parte di amici e parenti: originale sì, ma pazza no.
Questo per dire che non sono lo stereotipo della single di ritorno, amareggiata con gli uomini, che attribuisce all’intera categoria le peggio abiezioni. Sono certa che ci siano uomini deliziosi, e che probabilmente ne incontrerò uno anch’io. Ho avuto un uomo meraviglioso al mio fianco per tredici anni, e sono stata io a commettere le peggio sciocchezze per rovinare tutto. 
In tutta questa faccenda, lo ripeto, sono io quella che ha sbagliato, loro non hanno fatto nulla di più che essere i coglioni che sono per naturale inclinazione. 
Certo che ora ci rido. 
Guardandoli tutti assemblati nel mio dado formano un quadro d’insieme mal assortito e si completano a vicenda, poiché nessuno di loro avrebbe avuto senso se non ci fosse stato un altro prima e, ciò è davvero divertente, nessuno di loro avrebbe mai avuto un senso per me, né tantomeno ne ha ora, anche se a vederla così sembra di non rendere giustizia a uomini con i quali ho avuto anche relazioni lunghe, importanti, a tratti belle. 
Del resto era anche manifesto che si trattasse di coglioni, perché nelle condizioni in cui mi trovavo ogni volta che ne ho incontrato uno, non avrei mai potuto attrarre un uomo che non lo fosse. Chi non era coglione, infatti, non si sarebbe mai lasciato usare come traghetto prima, né avrebbe mai usato me come mozzo, o rematore, o strofinaccio per pulire il ponte poi. 
Quando i barconi scalcinati che io credevo panfili eccetera si rivelavano per ciò che in realtà erano, mi trovavo sempre già in alto mare, con l’irrinunciabile missione di guidarli io in un porto sicuro, benché fossero a volte fuori rotta, o pieni di falle da rattoppare prima che imbarcassero acqua e andassero a fondo. 
Sa il cielo quanto ho remato. Sempre naufraga.
Loro erano coglioni, va bene, ma io peggio.
Quindi non sono arrabbiata con loro, al più con me stessa. A dire il vero non sono più neppure arrabbiata con me stessa: sono stata sciocca, ho fatto l’unica cosa che sapevo fare, ho agito per collera, orgoglio, desiderio di rivalsa, paura della solitudine, ma ho pagato gli errori ed ho imparato. 
Come questi sei abbiano finito per avere importanza per me non lo so. 
La prima discriminante è sempre stata il fatto di amare la stessa musica, ma per quanto sia la mia più grande passione, ora mi sembra un po’ debole come base per un rapporto sentimentale. 
Non posso dire neanche di essere stata colpita da particolari caratteristiche fisiche, o doti intellettuali, o abilità amatorie comuni: non si assomigliano tra loro, se non nel modo banale in base al quale si può essere ugualmente colti o intelligenti così come si hanno un solo naso e due orecchie. 
In un uomo per me è indispensabile il senso dell’umorismo, eppure con alcuni di loro ho glissato con eleganza sulla sua assenza. 
Mi piacciono le persone ben educate, eppure almeno un paio di facce del dado erano piuttosto imbarazzanti. 
Certo non posso dire che fossero formidabili amanti, a parte i primi due -guarda caso quelli con i quali è durata di più- anzi, un paio erano praticamente inutili.
Insomma, non lo so. 
So che certamente una scrematura c’è stata, altrimenti le sei facce di un solo dado non mi basterebbero. 
Nel mio totale smarrimento, e seppur nella difficoltà di riconoscere i sentimenti e di collocarli nel loro giusto posto, credo di aver usato una certa sistematicità nel non prendere neppure in considerazione gli altri corteggiatori che mi avrebbero traghettata volentieri, forse perché si trattava di modelli di coglioni così vistosamente riconoscibili, che neppure negli stati confusionali in cui mi sono trovata ciclicamente avrei potuto fingere di non averlo notato.
C’è comunque stato un metodo, preciso e spietato, di demolire me stessa. 
Ho ignorato ogni avvertimento del mio sistema di allarme ed ho zittito ogni voce interiore, ma quel che è peggio ho sopportato umiliazioni di tutti i generi con la pretesa di risultare per questo così ammantata di nobiltà da apparire agli occhi di questi coglioni come un angelo. 
Insomma, non ho rispettato nulla di me e preteso che mi rispettassero loro, ho mascherato da delirio di onnipotenza la mia insicurezza, mi sono adattata a ciascuno di loro fino a rendermi uno zerbino, con il risultato di essere calpestata e, laddove l’ho fatto rilevare, ho potuto leggere sul viso di ogni coglione solo la più innocente incredulità.
Forse, con il tempo, un barlume di vergogna è affiorato anche nell’animo di qualcuno, ma così irrilevante da essere scacciato in un attimo, specie perché ciascuno di loro mi ha molto facilmente sostituita con un’altra donna inconsapevolmente in fase autolesionista, certamente più angelica e certamente più disponibile a fare da zerbino.
Perché alla fine, in un modo o nell’altro me ne sono liberata. 
Sì, certo, ho fatto il mio bel percorso di cazzate, eppure sono intera e ben decisa a non ripetermi, mai più.
Questo giro ho nuotato fino alla sponda, da sola.
Per questo mi concedo il lusso di raccontarli e di dimenticarli tutti insieme, questi uomini che mi hanno fatta piangere e che ora mi fanno ridere.