Quando ho cominciato ad andare a scuola, nel 1966, usavo la penna con il pennino e l’inchiostro.
Per tutte le elementari mi sono arrangiata con il calamaio, la carta assorbente e le macchie sulle dita e quando si passò alla stilografica mi sembrò una rivoluzione epocale.
Conservo ancora i miei quaderni delle elementari: sembrano miniati da un monaco benedettino, ma sono bellissimi.
I nostri libri erano terribili a riguardarli ora, avevano una grafica poverissima e sembravano tutto fuorché libri per bambini.
Ma la nostra immaginazione volava lo stesso, anche perché a casa avevamo i fascicoli delle fiabe sonore, quelle con i vinili a 45 giri e il libro illustrato.
“A mille ce n’è, nel mio cuore di fiabe da narrar...” era l’inizio della canzoncina che apriva ogni racconto, un sistema super tecnologico degli anni ’60 per far leggere i bambini.
Perché nessuno di noi, neppure il più pigro, si sarebbe accontentato solo di ascoltare il disco senza sfogliare e seguire la lettura su quegli album illustrati, con le figure bellissime che ogni tanto ci sforzavamo di copiare, o di ricalcare appoggiando le pagine a un vetro.
Verso la quarta elementare abitavo vicino all’Antoniano, dove c’era un mercato dell’usato. Si trovavano anche i libri e il mio divertimento più grande era andare a scovare, selezionando intere montagne di volumi di tutti i tipi, qualche romanzo per ragazzine della collana “Betty” della Capitol, di cui andavo pazza.
Con la paghetta mi acquistavo un libro nuovo, se mi piaceva me lo tenevo, altrimenti lo andavo a scambiare con un altro che trovavo all’Antoniano, che talvolta tenevo per un giorno solo, giusto il tempo di leggerlo e di decidere se tenerlo o scambiarlo di nuovo.
Ormai quelli del mercato dell’usato mi conoscevano -una bimbetta magra e lunghissima, bruttina, con occhi enormi sotto le lenti degli occhiali- me lo lasciavano fare e a volte, addirittura, se mi vedevano indecisa tra due libri, me li davano entrambi.
Ne ho divorati una quantità incredibile, poi sono passata ai gialli, poi...
Libri, meravigliosi, belli da sfogliare, con quel profumo di carta stampata che sta al terzo posto degli odori buonissimi dopo il pane appena sfornato e la pioggia d’estate, libri che non so più dove mettere, che ora riesco a leggere così poco perché sono sempre troppo stanca, o indaffarata, o poco concentrata, ma comunque c’è l’estate per ritrovarmi con una fame di libri che devo saziare, libri, che belli che sono i libri...
Sono cresciuta così, con i libri tra le mani e l’inchiostro sulle dita.
Sì, certo, anche tantissime altre cose: mi hanno insegnato a ricamare, a usare ferri e uncinetto, a confezionare semplici abiti, a fare la pasta a mano, tutte cose che so ancora fare, più o meno bene e che nella vita mi sono servite, se non altro per rilassarmi, fermarmi, concedermi il tempo di pensare, imparare a concentrarmi.
Utilizzo il computer da più di vent’anni. All’inizio lavoravo con una primitiva versione di Windows, credo il 3.1, e avevo un pc enorme che ho imparato ad usare da sola. Le ho viste tutte le versioni di Windows, finché non sono passata al Mac due anni fa.
Sono bravina, per essere una ragazza dei sixties e non aver mai aperto un manuale di informatica.
Vado a intuito, per prove ed errori, ogni tanto mi vado a cercare istruzioni online e ho una gran pazienza, forse quella che ho imparato scrivendo con il pennino, cercando libri nei mucchi, o lavorando all’uncinetto.
Perché io credo, da antica quale sono, che il percorso sia più importante del risultato e che, salvo se si deve prendere un treno, non ci sia alcun bisogno di avere fretta.
Mi rendo conto che la tecnologia offre infinite possibilità, bypassa molte difficoltà, mette in comunicazione in tempo reale milioni di solitudini diversamente declinate, ma mi rendo anche conto che per certi aspetti ne sono diventata schiava anche io.
Per la paura che mi ha presa di perdere la musica raccolta pazientemente sul computer negli ultimi dieci anni, mi sono comperata un server domestico e il mio amico Mauro -altro ragazzo dei sixties- è venuto dalla Brianza per configurarmelo.
Con calma, nel frattempo aveva da cucinare una cassouela.
Va bene, la Brianza non è la Silicon Valley e io non ho in casa il server della NASA, ma è per dire che noialtri siamo cresciuti a pasticci sui quaderni e libri poverissimi, ma ce la caviamo molto bene anche con le faccende moderne, mentre restiamo legati alle nostre tradizioni antiche.
A scuola vogliono dotare i bambini di tablet, che all’inizio sostituiranno i libri e i notes per gli appunti, poi con il tempo anche i quaderni.
Il progresso ce lo chiede.
Non sanno allacciarsi le scarpe, non sanno ritagliare, alcuni arrivano a scuola che non sanno neanche tenere in mano la matita e la maggior parte esegue i compiti senza leggere la consegna.
Tutti sono accomunati dall’essere concentrati solo sul risultato e dal considerare la velocità un valore.
L’applicazione regge per poco, degli errori non deve restare traccia e spesso li si vede che si accasciano sul banco, scrivono con il mento appoggiato al foglio del quaderno e se potessero avere un telecomando in mano, la maestra sarebbe solo una delle tante schermate di uno zapping annoiato.
Per fortuna non hanno un joystick, altrimenti proverebbero a spararmi.
Perché quelli, invece, li sanno usare benissimo, anche se nessuno glieli insegna. Sanno usare il cellulare meglio di me e non c’è gioco di velocità al computer nel quale non darebbero dei punti a qualsiasi ingegnere elettronico cinquantenne. Hanno i pollici più veloci del West.
Sono nativi digitali, sono già nati programmati con le conoscenze rudimentali dei genitori e sono stati sempre immersi nella tecnologia da quando hanno emesso il primo vagito, monitorati, filmati e fotografati in tempo reale da apparecchi digitali.
Un nanosecondo dopo aver visto la luce viaggiavano già nell’etere tramite MMS, salutati da uno schermo da parenti e amici.
A volte ti chiedono basiti cosa sia un pettirosso, ma sanno riconoscere un iPhone.
A questi bambini il tablet non bisogna darlo, per nessun motivo al mondo.
Li si priverebbe del fruscio delle pagine dei libri, degli esercizi pazienti di bella calligrafia -cioè di grafia bella bella, per i grecisti- si toglierebbe loro il piacere di assaporare l’odore di vaniglia di certe pubblicazioni per i bambini, di guardare le figure e di provare a copiarle.
Nessun bambino può ricalcare un disegno da un tablet: se lo appoggia su un vetro non diventa trasparente.
Gli si negherebbe il diritto di sbagliare e di vedere i suoi errori, perché il computer corregge tutto e non ne lascia traccia, talvolta è lui stesso a dire dov’è lo sbaglio e come si può rimediare, sollevando chi lo usa dal pensare, tanto alla fine tutto sarà perfetto senza che rimanga alcun ricordo del percorso, meglio ancora che nei videogiochi dove finiscono le vite e tocca aspettare che si ricarichino.
Non dobbiamo dare un tablet in mano a un bambino di sei anni, ma neanche a uno di dieci, o di tredici, perché di oggetti elettronici ne hanno tra le mani già troppi e il confine tra funzione e gioco non lo conoscono.
Non glielo dobbiamo dare per nessun motivo al mondo perché sono già schiavi della tecnologia e perché di questo passo non sapranno più scrivere, né contare, né riconoscere da soli se 6 x 8 fa 48, o 1.345, un altro numero a caso, perché perderanno il gusto di farsi domande e creare problemi, completamente intorpiditi dal non uso del corpo e della fantasia.
Non si deve dare un tablet a un bambino perché è vero che ora l’accesso a qualunque informazione è a portata di un clic, ma la capacità di filtrare e selezionare tutti questi dati viene dall’esperienza, quella che si fa pensando, sperimentando, osservando, ascoltando, disegnando, annusando, sbagliando, cercando e tutti i gerundi antichi che vi vengono in mente.
Con calma, prendendosi tempo.
Bisogna cercare di limitare più possibile la tecnologia nella vita di un bambino e lasciarlo essere un bambino, tanto è già capace di usare questi aggeggi.
Bisogna insegnargli a vivere senza tecnologia, a metterla al suo servizio, non a esserne schiavo, altrimenti l’unico uso che farà del cervello sarà per comandare i pollici, e poco importa se sono opponibili.
Quello che della tecnologia non sa, lo imparerà da solo, come ho fatto io, come ha fatto il mio amico Mauro, come abbiamo fatto tutti noi cresciuti con mezzi poveri, ma con il nostro mezzo più potente e sofisticato sempre in attività.
Quello che vorrà o dovrà imparare di più, lo imparerà quando sarà in grado di avere, come noi, un’uscita di sicurezza in caso di blackout.