venerdì 11 gennaio 2013

The neverending mappazza


Da quando sono rientrata a scuola dopo le vacanze natalizie, ho pranzato tre giorni a scuola.
Fin dal primo giorno mi sono accorta che avrei dovuto affrontare la catarsi dopo i banchetti natalizi a base di tortellini, brasati, arrosti e favolosi dolci, ma non avrei mai creduto che il contrappasso sarebbe stato così spietato.

Lunedì ci hanno servito dei quadrucci in brodo vegetale -dove per brodo si intendeva acqua sciapa- e delle polpette di verdura che si fermavano a metà dell’esofago formando un tappo; martedì è stata la volta di un piatto di maccheroni in bianco, inodori, insapori, incolori e della consistenza della malta per l’edilizia, seguiti da un sedicente hamburger immerso in una gelatina rossa -che ci han detto essere pomodoro- e da un purè semiliquido; giovedì ci hanno presentato un risotto con zucca biologica, costituito da un unico bolo giallo, e una triste coscia di pollo accompagnata da un fango di fagioli cannellini irriconoscibili. La mia collega, che aveva dieta in bianco, ha avuto come contorno delle patate bollite che nuotavano nell’olio.
Nessuno di questi piatti è stato servito a temperatura che si potesse definire almeno “tiepida”.
Mi sono alzata da tavola sognando uno sfilatino alla mortadella, con quella forma di appetito non saziato che è sempre diretta conseguenza di questi pranzi orribili. Per un attimo ho avuto nostalgia, non tanto di una pietanza gustosa a caso, della quale certi cibi spengono anche il ricordo, ma piuttosto di uno di quei deliziosi menu da ospedale, il classico: minestrina in brodo di pollo, paillard e bietola lessa.
Ho dato un’occhiata a quanto ci riserva la mensa per tutto il mese e mi sono resa conto che sarà durissima. 
Nella mia ventennale carriera mi sono chiesta sempre se le dietiste che elaborano i menu scolastici -sono sempre donne, non si sa perché- non siano in realtà una sola persona incarognita con l’esistenza.
Non saprei come spiegarmi altrimenti questo accanimento a nutrire dei poveri bambini, in una delle più determinanti fasi formative della loro vita, con accostamenti del tutto irrazionali di cibi ugualmente disgustosi.
C’è qualcosa di efferato nei menu scolastici, qualcosa che sfugge alla comprensione dei più e che lascia supporre un disegno più ampio, diretto a condizionare le giovani generazioni, abituandole alla deprivazione di uno dei più entusiasmanti piaceri della vita: il buon cibo.
Nel buon cibo c’è un contatto emotivo tra chi cucina e chi mangia, un nutrimento che non riguarda solo il corpo, ma anche quella parte dell’anima che si raggiunge attraverso i sensi, quindi queste povere creature vengono educate all’anaffettività gastronomica. 
Forse qualcuno ha previsto che ci attenderanno terribili carestie, quindi meglio prepararsi subito a farsi piacere gli arbusti, le bacche e, in mancanza di selvaggina, la plastica degli imballi (quest’ultima soluzione sarebbe tra l’altro interessantissima, perché garantirebbe anche lo smaltimento di una buona parte dei nostri rifiuti).
E’ vero che una certa dose di responsabilità ce l’ha la cucina, visto che gli stessi piatti, cucinati bene, o anche solo cucinati nel senso autentico del termine, potrebbero forse risultare commestibili. 
Si deve quindi anche considerare il problema dalla prospettiva della realizzazione dei manicaretti, ma indubbiamente è sull’ideazione del menu e sulle direttive impartite per metterlo in pratica che si concentra l’aspetto più scabroso.
Quale mente perversa può partorire, infatti, un trionfo degli amidi come quello proposto con la fatale accoppiata riso/fagioli? 
Giovedì già nell’immediato dopo pranzo abbiamo avuto i primi caduti sul campo, due bambini che hanno detto di avere mal di pancia e si sono fatti venire a prendere dai genitori. 
Verso le tre del pomeriggio è stato uno stillicidio di: “Maestra, posso andare in bagno?”, proprio mentre tentavo di spiegare alla classe le splendide flessioni per genere e numero dei nomi. Quando rientravano in classe, però, i piccoli sembravano  non solo alleggeriti, ma persino più interessati alla materia.
Mi domando ogni volta che tipo di donna possa essere la dietista, quella che immagina, per un martedì a caso, un pranzo che prevede come primo la pizza e come secondo prosciutto cotto e patate. 
La pizza, per dirla tutta, è un rettangolo di gommapiuma sul quale è stesa un’ipotesi di pomodoro, disseminato qua e là da chiazze di mozzarella secca: ai bambini piace da pazzi, il che mi dimostra che il piano sta riuscendo alla perfezione e non distinguono più né i sapori, né le consistenze.
Per fortuna la pizza è così ambita dai vari plessi, che solo un paio di scuole al mese rientrano tra le fortunate che se la aggiudicano e, a quanto pare, a noi capita assai di rado perché siamo il plesso che inoltra il maggior numero di lamentele, spesso condite con feroce sarcasmo.
I reclami non sono un nostro divertimento, però, ma un atto di denuncia che la nostra etica impone.
Vogliamo parlare, per esempio, dei tortiglioni con ragù di verdure, eufemismo che maschera una poltiglia adesiva violetta di non identificati vegetali? O delle polpette fritte al forno, ossimoro culinario dall’impanatura in truciolato? 
Ogni tanto, sul menu compare il miraggio di poter avere per pranzo le lasagne, sempre però indicate con una possibile alternativa nel caso non dovessimo essere sorteggiati per questo prestigioso premio. 
Lasciamo stare che non posso immaginare le lasagne della mensa se non come un esempio di eresia, la sola parola però ci illude e si rivela uno scherzo di cattivo gusto, visto che ci viene servita sempre l’alternativa, che di solito è rappresentata da tagliatelle al ragù di bovino, la cui carne, macinata grossolanamente, sembra possedere la straordinaria qualità organolettica di aggregarsi in pochi bocconi di discrete dimensioni e singolare compattezza, ma di non condire affatto.
Talvolta ci vengono proposti formaggi, soprattutto stracchini e ricottine in confezioni monoporzione. Peccato però che le confezioni non si riescano ad aprire. Duecentocinquanta bambini affamati, vocianti come una curva dello stadio, e altrettante confezioni di formaggino che non si aprono: è un momento agghiacciante. Quando vediamo che per secondo c’è la ricottina, siamo pronti al peggio. Ogni volta che viene aperta, del resto, ci fa rimpiangere di non aver desistito dal farlo.
É singolare poi notare come nel nostro menu vi sia un’evidente discrepanza tra significanti e significati: se infatti il nome della portata potrebbe evocare immagini mentali che si riferiscono alla nostra esperienza, o alle nostre conoscenze, la realtà smentisce sempre ogni aspettativa. Pare che vi sia totale mancanza di un codice alimentare comune tra noi, la dietista e le cucine. 
Che si tratti della vaghezza con cui i piatti vengono descritti, o che la causa sia  da imputare all’imprecisa realizzazione degli stessi poco importa, resta il fatto che solo nel caso delle minestre di legumi -unici cibi discreti che ci vengono serviti- esiste una coincidenza tra il nome, l’idea e la realtà.
La nostra dietista tuttavia, con la connivenza della cucina, esprime tutta la sua indole sadica con le verdure. 
Se escludiamo i brevi periodi dell’anno scolastico in cui abbiamo a disposizione i fagiolini, che peraltro ci vengono propinati bolliti fino alla depressione e deliberatamente sconditi, è previsto l’uso unicamente di alcune declinazioni di cavolo e insalata, talvolta anche insieme, di patate - servite solide, liquide o anche gassose- di fagioli e, soprattutto, del piatto principe di tutto il nostro menu: le carote filanger.
Ci vengono somministrate almeno due volte la settimana, e già alla fine di ottobre non ne possiamo più. 
È vero che fanno bene alla vista e che a giugno saremo tutti pronti per una favolosa abbronzatura, ma il rischio di andare in overdose da carote è reale.
Come inizia l’anno scolastico, a me viene la gastrite, che mi passa durante le vacanze di Natale e si ripresenta puntuale al rientro. 
Mi rendo conto benissimo che portare a scuola un salame e farmi un panino mentre i piccoli hanno davanti un piatto di filanger sia diseducativo, oltre che crudele, quindi sono con le spalle al muro. Potrei mangiare a casa verso le undici e mezza di mattina, ma anche non mangiare mai con loro è diseducativo.
Protestare non serve, mandare avanti i genitori nemmeno, non resta quindi che mandare giù il boccone indigesto -nel senso letterale- e resistere, resistere, resistere: in fondo mi mancano solo quattordici anni alla pensione.

<Trattandosi di opera di fantasia, ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale>

Grazie a Silvia, la mia adorata collega, che mi ha suggerito il titolo.



2 commenti:

  1. Ti capisco, tesoro...ahhh! se ti capisco! Tu immagina: esordio del tempo prolungato, piccolo paese ai confini delle lande nebbiose, rifiuto dei bidelli allo scodellamento, distribuzion delle uova sode lanciate in perfetto stile baseball e le ineffabili carotine piccole e tornite da noi ribattezzate "dita-di-bimbo"!!Ti capisco..coraggio!
    P.S. Grandiosa!!
    P.P.S.Itala

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  2. non ho mai avuto l'onore (o l'onere) di sedermi con i ragazzi in mensa, ma gli odori (leggi 'puzza da vomito') proveniente dalle cucine non era proprio un invito allettante... lo ammetto, andavo al bar...
    per forza poi c'era la fila alle macchinette erogatrici di schifezze confezionate: dovevano sembrare un pranzo da re a confronto. e così crescono i nostri figli: con il colesterolo altissimo già a 7 anni e il fegato spappolato alla Vasco Rossi, ma con 40 anni di anticipo, e lo stomaco ridotto a un ammasso di succhi gastrici sempre più aggressivi, per adeguarsi alla situazione.
    per non parlare del lato psicologico: i nostri figli non diranno mai 'che bello stare a tavola in compagnia' e il primo invito alla prima fidanzatina sarà 'ti va un cannone?'. almeno la fame chimica conseguente coprirà l'orrore del nuovo pasto...

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