Erano tre mesi che me lo sentivo ripetere: “Può essere domani, tra una settimana come tra un anno, ma non potrà durare. Comincia a preparare il cuore”.
Ma il cuore non è mai pronto ad affrontare la morte, neanche se vedi la sua presenza fredda che si impadronisce ogni giorno sempre di più di qualcuno che ami.
Non è pronto, anche se tutti conviviamo con la morte e facciamo finta di niente finché qualcosa non ci costringe a riflettere sulla nostra piccola precarietà.
Ci ho provato a prepararlo, ma quando è venuto il momento di prendere una decisione ho visto quanto era fragile il mio cuore e l’ho sentito andare in pezzi.
Prendere una decisione sulla vita di un altro essere è straziante, è una responsabilità che comunque vada farà sentire in colpa.
Ci si chiede se non sarebbe stato meglio farlo prima, o se sia davvero il momento giusto, quello nel quale il sottile confine tra la vita e il “non è più vita” è stato superato.
Ci si chiede, come dice mia figlia, se nel momento in cui sopraggiungerà la morte non ci sia, forse, chissà, ancora qualcosa per cui vivere un minuto, un’ora o un giorno di più e non si stia privando qualcuno di qualche piccola gioia sconosciuta che potrebbe venire, forse, chissà.
Per questo si convive, spesso davvero troppo a lungo, con il dolore di chi ami e la morte che gli cammina accanto, con la stessa indifferenza con la quale ogni giorno della vita ignoriamo la nostra natura mortale, eppure scrutando come di nascosto ogni possibile segnale che ci dia ragione per continuare a rimandare una decisione, quasi a sperare che la morte sia clemente, che venga da sé per un accidente e che ci colga di sorpresa spazzando via ogni responsabilità e ogni dubbio.
Non è pronto il cuore a vedere una creatura splendida, buona e pura, che non può parlare e che sta soffrendo. Le domande gliele devi leggere negli occhi, nei comportamenti, o in uno smarrito vagare alla ricerca di pace.
Devi capire quando il contatto con il calore della tua mano è ancora una piccola gioia per quale vale la pena vivere un giorno in più, quando la ciotola del cibo segna ancora uno dei momenti più belli di una giornata, quando il venirti a cercare è quel suo consueto starti tra i piedi o una richiesta di aiuto.
Come fa un cuore a prepararsi a questo?
Perché ogni morte, anche mentre la si aspetta e si cerca di prepararsi al suo arrivo, richiama tutte le altre che l’hanno preceduta, e allora il dolore, il pianto, l’incapacità di superare la paura e allo stesso tempo l’egoismo che ci portano a rimandare e a sperare che una fatalità ci assolva, tutte queste cose sono troppe tutte in una volta e il cuore non è mai pronto.
Però viene il momento in cui si vede che negli occhi di quella creatura si spegne la luce e che bisogna mettere da parte paura ed egoismo, perché amare significa preservare la dignità della vita di chi soffre, che sia un animale, o anche una persona.
Se ho sbagliato, se ho aspettato troppo, o troppo poco, è a questi motivi, piccoli, umani e meschini che lo devo imputare, all’inadeguatezza di fronte alla silenziosa sofferenza di uno splendido gatto rosso per il quale ieri sera, insieme ai miei figli, ho fatto una scelta straziante, ma con tutto l’amore di cui il mio cuore non pronto è stato capace.
E che nessuno dica che era solo un gatto.
Lucifero
4 aprile 2004- 18 gennaio 2013
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RispondiEliminaStessa ragione per cui ho preso con me una cagnolina una sola volta: sono animali troppo umani, troppo dipendenti. Amano come un uomo e, come un uomo, vogliono la tua fedeltà, le tue attenzioni continue, la tua compagnia in ogni circostanza. Mi ero affezionata alla mia Jack, ma, quando smise di respirare, una mattina di primavera, sapevo che mai più mi sarei legata a un cane. Temo di non essere stata per lei una buona compagna, non sapevo esserlo. Jack mi faceva le feste ogni volta che rientravo a casa, mi saltava addosso ogni volta che uscivo dal bagno, mi leccava al mattino quando suonava la sveglia (puntualmente puntata per non essere ascoltata), mi stava intorno quando armeggiavo in cucina, con il suo musino delizioso e i suoi occhioni impauriti. Questo non sopportavo: i suoi occhioni impauriti. Mi temeva. Temeva i miei umori neri, come se fosse colpa sua, temeva i miei sguardi severi, che pure non erano rivolti a lei, ma Jack percepiva ogni mia mossa in funzione propria. L’errore primo con lei, fu prenderla nel periodo in cui abitavo con il mio quasi ex-marito: io avrei educato quella meravigliosa cagnetta in maniera totalmente diversa, ma lui si ostinava a proteggerla, oltre ogni immaginazione, a trattarla come la più indifesa e incapace delle creature. La amava molto più di me, ma movendosi in una dimensione dell’amore, che non condivido.
Quando me ne andai, Jack rimase con lui e, come si fa tra divorziati con i figli, passavo a prenderla almeno una volta al mese, la tenevo con me per un fine settimana o poche ore, sempre sperando di riuscire a rieducarla. Inutile, vista l’età avanzata o, forse, il maggior gradimento che traeva dall’altro genitore.
Poi finì. Quella mattina era con me. Mi stava leccando, al trillo della sveglia. Mi alzai; i riti quotidiani della doccia e del caffè; mi stavo vestendo per portarla a spasso quando, sull’uscio, si accasciò.
Non avvertii lui, presi Jack per condurla nel prato più bello, la feci rotolare nell’erba, il suo corpo ancora caldo, la accarezzai e le raccontai la favola della fanciulla dall’anima diversa, che sapeva parlare solo con se stessa e che non capiva il linguaggio di chi la circondava; così, la fanciulla si era ritirata in un eremo d’oro, in cui esistevano solo l’aria sufficiente ai sui polmoni e lo spazio magico e infinito per i suoi simboli di affetto.
Quando Jack si raffreddò e si irrigidì, andai a cercare legna, ne feci una pira, donai il suo corpo al vento e piansi, finché il fuoco non si stancò.
Allora, diedi sepoltura a Jack, facendola correre sul prato, sulle radici grandi degli alberi, sul fiume che scorreva vicino, sotto le nuvole bianche che ci sovrastavano. Le nuvole si scurirono del suo colore ormai grigio e iniziarono a piangere con me.
Tornai a casa molto dopo il tramonto; il mio quasi ex-marito aspettava davanti al cancello lo scodinzolare della sua cagnolina, mentre dovette accettare le mie guance rigate.
Non parlò per tutta la notte, rimase con me in terra, sul tappeto, di fronte alla tv silente e alle corde della chitarra pizzicate senza attenzione; all’alba mi chiese di portarlo nel prato e lì di lasciarlo solo. Non lo vidi più. Io tornai a casa ad ascoltare la musica dei pellerossa. Fu allora che capii il motivo che mi rendeva così scontrosa nei confronti dei cani: ti rubano un pezzo di cuore, come il migliore degli amanti, ma ti lasciano quando tu avresti ancora voglia di amarli. Come un tradimento.
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no, il cuore non è mai pronto. un abbraccio, Bibi.
Ci ho messo un po' a rileggere questa cosa, e un po' a leggere il bellissimo scritto che mi hai mandato.
EliminaOgni volta che penso a Lucifero piango, ma la vita va avanti e, come dice Lorenz, non potendo restare fedeli al nostro singolo animale, destinato ad avere vita più breve della nostra, possiamo essere però fedeli alla sua stirpe.
Il prossimo fine settimana arriverà un gattino tigrato -sarà Aiace, o Archimede- e già so che lo amerò. Non è "sostituire", ma voler continuare, tenacemente, ad aprire il cuore.
:(
RispondiElimina(e temo che tra poco Momo ci lascerà, quindi capisco perfettamente)