martedì 1 gennaio 2013

Biografia minima di un mestierante


Sette anni: la manina incerta imprime sul foglio un segno grosso con la matita mangiucchiata. 
Ormai sa scrivere, ma non ha ancora perduto del tutto il bisogno infantile di testimoniare traccia di sé, con una pressione che quasi incide la carta sottile. 
L’inconscio di un bambino esige un diretto rapporto quantitativo tra ciò che il piccolo scrive e l’importanza che egli stesso gli attribuisce: “Una pagina intera di caratteri grandi e grossi, questa è una bella storia!”
C’è un castello, naturalmente, e un drago orrendo e un mago cattivo e un cavaliere senza paura, accorpati in un blocco polisindeto di e allora, e poi, e congiunzioni che non prevedono punteggiatura, in una compulsione fantastica a dire tanto, a dire troppo.
Ha sette anni, la sua immaginazione è lanciata in uno spazio siderale senza limiti, e non ha alcun senso che gli adulti sviliscano il suo progetto di vita con correzioni in rosso, o dicendogli che si tratta di un sogno: lui farà lo scrittore e non saranno certo le regole di ortografia, o i divieti, o le imposizioni di virgole prima dei ma - ma mai davanti alle e - a scoraggiare questa visione limpida, nitida, bruciante come il fuoco di un altare.
E’ buono il profumo della carta e dolce l’aroma della polverina scura che si sgretola piano piano dalla grafite della matita.

Diciassette anni: il diario è rivestito con carta di giornale in un insolito collage e giace sulla scrivania, ancora pulsante delle confessioni intime di un’identità che si va cercando negli errori più sciocchi. 
Sua madre non lo leggerà, perciò non ha bisogno di nasconderlo, ha fiducia. 
Scrive ogni giorno e racconta solo la verità: parla di quella compagna carina che vorrebbe invitare a uscire, del litigio con un amico, di delusioni e aspettative. 
Racconta i sogni, ma non i sogni, racconta ciò che ha sognato di notte, quello che talvolta prende la forma di novella surreale, popolata di lievi fantasmi, di dubbi, di gatti che giocano a canasta, di oggetti parlanti che dispensano consigli, di razzi che percorrono le scie stellate delle galassie con a bordo gli insegnanti in abiti da inquisitori. 
Gli piace questo universo simbolico, intuisce che si tratta di un gioco affascinante della mente che pone indovinelli, allora, da sveglio, prova a cimentarsi con la realtà deformata, la filtra attraverso segni nei quali poi finisce per perdersi, poiché non ha ancora imparato a dominare con confini logici il susseguirsi di eventi illogici, o perché non tutto il suo pensiero prende forma sul foglio bianco, ma subisce fatali omissioni.
Il suo progetto di vita, tuttavia, è ancora intatto: farà lo scrittore e non lo dissuaderanno gli elenchi di figure retoriche che deve imparare a memoria per compiacere la professoressa di Italiano, né le analisi dei testi nei quali deve saper riconoscere l’intreccio, la trama, l’ordito, il ricamo, il punto a giorno di bordura. 
Un giorno sarà lui il tessitore e sfiderà gli dei come fece Aracne con Atena, a costo di restare ragno per l’eternità (ma vorrebbe forse altro?). 
Aspetta con trepidazione le occasioni per sottoporre i suoi lavori al giudizio dell’insegnante, spesso ne viene gratificato e si gonfia di orgoglio. 
Scrive anche per il giornalino della scuola ed è diventato piuttosto popolare, ma ciò che è suo, più intimo e profondo, resta segreto. 
Nelle sue poesie, acerbe nel linguaggio, gravide nei significati, c’è la freschezza rara di chi ancora con le parole non sa mentire.
Gli piace la carta ruvida, spessa, che assorbe l’inchiostro della penna dalla punta veloce, rigorosamente sottile.

Ventisette anni: la laurea è inutilizzata nel cassetto, il lavoro saltuario, gli entusiasmi si sono un po’ stemperati nel fluido del tempo. 
Nella redazione del quotidiano locale regna un clima di dilettantismo, non molto diverso da quello che si avvertiva quando, giovane ed entusiasta, collaborava col giornalino della scuola scrivendo pezzi di costume, sciocchezze sulle gaffes dei professori o sulle figuracce fatte dai compagni durante le interrogazioni. La differenza sta nel fatto che allora non se ne accorgeva, ora invece sì. 
Redige trafiletti di cronaca senza neppure firmarli, ma a casa, quando è solo, non ha perso l’abitudine di scrivere a mano usando l’olfatto, gustando con le dita la grana dei fogli, ascoltandone il fruscio quando si volta pagina, mordicchiando la punta della penna, amara di inchiostro.
Non si perde più dietro gli angoli insidiosi dei suoi racconti carichi di tracce da decifrare, legge, rilegge, lima, straccia, riscrive, brucia dello stesso fuoco di quando era bambino, cerca la stessa verità di quando era adolescente. 
Mette a nudo la sua anima senza mai parlarne, perché nella letteratura l’unico modo per raccontare il vero è attraverso una finzione simbolica.
Il suo progetto è chiaro: vuole diventare uno scrittore, né lo svieranno dal cammino le limitate battute a sua disposizione sul giornale, o i commenti cattivi dei pochi amici ai quali fa leggere i suoi racconti.
Protetto da un nickname, pubblica timidamente qualche scritto su siti che si auto-definiscono letterari, approfittando del grande pubblico messo a disposizione da Internet per far leggere i suoi racconti; fa amicizie, riceve qualche benevolo commento che lo incoraggia a proseguire nella scrittura, a sua volta incoraggia altri, ma non ha cuore di disilludere chi infila errori di sintassi e ortografia come perline di una collana, o chi scrive banalità da ragazzina pur essendo ormai in piena menopausa : chi ci prova viene assalito e coperto di “tu non ne hai il diritto”
Lo scrittore telematico non ama affatto il confronto, cerca solo piaggeria, false conferme della propria bravura od occasioni per mostrare la propria sapienza in campo poetico, sfoggiando accademie risibili.
Lui vuole altro, vuole un’edizione rilegata che faccia il profumo di vaniglia di certa carta stampata, vuole il cartoncino sottile su cui perdere l’occhio leggendo. Leggendosi.

Trentasette anni: lavora da qualche anno presso una importante società commerciale, perché a un certo punto della vita è stato necessario sacrificare una possibile carriera al giornale a favore di una probabile carriera in azienda. La sicurezza economica ha le sue priorità.
Scrive sempre, anche se ormai la carta ha ceduto il passo al più pratico notebook, salvo quando di notte, nel bel mezzo di un sonno incoraggiato da una pillola - ma non per questo meno tormentato- si sveglia con l’irrefrenabile impulso di fissare un pensiero che lo ha sfiorato, una delle meteore che fin da bambino ha imparato ad afferrare al volo.
In cantiere ha un grande romanzo, la cui gestazione è iniziata per disperazione e il cui parto si preannuncia chirurgico. Ha mandato molti manoscritti ad editori, infatti, ricevendo lusinghiere proposte di pubblicazione, alla semplice – e irrilevante – condizione di acquistare preventivamente un certo numero di copie, o di contribuire con un modesto esborso di denaro alle spese di stampa, distribuzione e promozione della sua raccolta di racconti.
Non occorre essere contabili per accorgersi che ogni copia del suo libro gli verrebbe a costare almeno il triplo del prezzo di copertina. 
Ha incontrato anche editori molto onesti, che lo hanno gentilmente liquidato con formule magiche come “ …i suoi interessanti racconti non sono in sintonia con la nostra linea editoriale”, oppure “…siamo spiacenti, ma attualmente in Italia il racconto è un genere che non incontra i favori del pubblico, salvo chiamarsi Carver. Poiché il libro è anche un prodotto commerciale, saremo lieti di prendere nuovamente in considerazione un suo scritto quando avrà il respiro di un romanzo…” . 
Cosa ci può fare se il romanzo a lui il respiro lo toglie?
Forse occorre farsi un nome, partire già con un curriculum interessante come autore di racconti, partecipare a concorsi letterari per acquisire prestigio.
Partecipa, ottiene subito un buon piazzamento con una storia quasi brillante, dietro ad un commovente racconto su un giovane corroso dalla leucemia e a una sofferta dichiarazione d’amore alla grande voragine di ground zero. Ancora un altro podio, un assegno e una coppa – orribile – con una poesia d’amore semplice e gioiosa, subito appresso a una stucchevole lirica in endecasillabi tutta trecce di fanciulla, nastrini gualciti e labbra vermiglie, scritta a tavolino, probabilmente con l’aiuto di un manuale di composizione poetica fermo a Giovanni Pascoli, se non allo Stilnovo. 
Non se ne preoccupa, pensa che si tratti di quella particolare giuria, il cui gusto ignora qualsiasi forma letteraria che non si possa racchiudere in una metrica rigidamente calibrata su contrazioni o dilatazioni di suoni vocalici nelle sillabe, come se l’enigmatico sorriso di una Monna Lisa avesse fissato i canoni della sensualità, oltre i quali a nulla fossero servite le geniali deformazioni delle prospettive simultanee di un Picasso.
Tuttavia comincia a porsi domande, mentre sfoglia le ultime novità sui banconi delle librerie: nuove edizioni di grandi classici, sciocchezze di comici televisivi, best-sellers di genere, reportages sugli ultimi fatti di cronaca – guerre, o squartamenti ad opera di madri pazze, fa lo stesso, purché sgorghi il sangue a fiotti e vi si possa dire: l’uomo è peggio delle bestie, con la consolazione di chi sa di agire rettamente e pensare rettamente, con la rassicurazione catartica che i pazzi siano altri. 
Soprattutto legge vicende strappalacrime, odiosi atti di cannibalismo su dolori che nella vita vera le persone vivono veramente, scritte da altre persone che probabilmente non le hanno mai vissute.
Lui non lo fa, non ne è capace, lui conosce troppo bene il dolore da quando ha perduto sua madre, anni prima. 
Ne scrive, certamente, ne ha scritto pagine e pagine, ma non ha mai potuto sbattere in faccia ad altri (e a se stesso?) la crudeltà dei diretti significanti. 
Morte, malattia, sofferenza fisica, progetti che si perdono nel vento come fumo di un camino… non è così che ne ha parlato, non è in questo modo che ne potrà parlare, ma non perché insito nelle parole vi sia un tabù, bensì perché il dolore è proprio di ciascuno di noi, va difeso, va trattato con pudore, è fragile e prezioso. 
Nessuno lo può comprendere, se non attraverso un filtro. 
La letteratura è filtro, la poesia è filtro, quella malattia endemica e incurabile di cui parla Montale, quella nella quale cuore può far solo rima con rigore. 
Dov’è il cuore della bionda signora di Milano nei cui racconti si fanno esplodere piccoli kamikaze, o padri morenti si confessano con voce tremula a figli che non incontrano da anni? Dove sta il cuore di questa signora, insignita di premi, onori e riconoscimenti, che sulla terrazza della sua bella casa che guarda i Navigli racconta di una madre che vende il figlio per fame, senza averla mai neppure immaginata la fame, ma solo perché sa che quello che un lettore vuole – sia un uomo qualunque o un professore in pensione di una giuria – è piangere, commuoversi, straziarsi, inorridire e insieme purificarsi, sentirsi più buono, godere inconsciamente del fatto di non avere un figlio kamikaze, non essere morente e non avere fame?
Quale cinismo bieco permette di farsi paravento fregiandosi del titolo – o anche solo dell’aspettativa di meritarlo – di scrittore, per fingere nelle parole di avere sopportato ciò che ad altri brucia davvero sulla pelle?
E quel dottore, che tutte le giurie si contendono, che nel palpare il seno di una paziente avverte il nodo che le sarà fatale, con quale diritto lo racconta - come se il groppo in gola, la disperazione, la rabbia fossero suoi- a giurati che lo leggono come se assumessero su di sé il carico di dover assistere quella donna quando sarà solo un grumo di sofferenza?
Fino a che punto la finzione letteraria può trascendere l’etica che vieta di speculare sulla vita per farne mercimonio? Dove sono finiti il sogno, l’immaginazione, l’allegoria e quella capacità di restare lievi, condensando nell’attesa di un bacio di buonanotte l’angoscia di un bambino, raccontata da un uomo sofferente alla ricerca del tempo già vissuto per compensarsi di quello che non vivrà? 
Lui, che coltiva da trent’anni il progetto di essere uno scrittore, scuote la testa, si dice che non è vero, non è così, forse è solo un caso, ma un tarlo maligno lo induce a effettuare qualche piccola ricerca anche sulle pubblicazioni e sui premi vinti dalla graziosa professoressa di Padova, che si dice abbia amici sparsi in tutta Italia, coi quali scambia informazioni sulla composizione delle giurie letterarie in modo da scrivere ciò che più probabilmente ne incontrerà i gusti: anche lei, caso insolito, ha perduto una cara amica per un male incurabile, è stata a Kabul prima dell’orrore, ha descritto gli occhi di un piccolo schiavo nel cuore dell’Amazzonia e ha raccontato di una famigliola in visita alle Twin Towers un certo 11 settembre.
Anche il borioso ingegnere di Novara, che contende il più alto gradino degli onori poetici alla sua rivale di Avellino, scrivendo limpide ottave sul padre “curvo nei campi a mietere gli anni/ gravi di frutti, colmi d’affanni” nella grande piana alluvionale del Po - tanto quanto lo era il padre dell’illustre poetessa irpina in terra campana - lo insospettisce: ha un palmarès invidiabile, si destreggia con uguale successo sia in prosa sia in poesia, le sue storie sono sempre molto misurate, benché scritte con un impercettibile soffio di superiorità, ma anche lui parla di malattie, guerre contemporanee, notizie di cronaca raccontate come fiabe a giurati ipersensibili.
Poche, pochissime volte viene riconosciuto – da un uomo qualunque o da un professore di una giuria - uno scritto difficile, o simbolico, o che celi dietro una patina di significante un significato più intimo, più mascherato da analogie che non da similitudini, che davvero sia in grado di mentire, fingendo di sentire ciò che veramente si sente.
Lui, che da trent’anni desidera diventare uno scrittore, capisce che chi legge vuole la vera menzogna, vuole essere certo che chi scrive stia ingannando, per potersi lasciar andare alla propria commozione senza che nessuno sia morto davvero, fingendo che la guerra sia una folata di vento scuro che scoperchia le case, sgretola le trine delle moschee o gela l’acqua delle fontane, illudendosi che la fame, la malattia, il dolore siano solo ingredienti di un piatto un po’ indigesto, pensando sempre che uno scrittore, cavaliere senza macchia e senza paura, potrà spezzare l’incantesimo facendo versare quella lacrima miracolosa nel cui fluido glauco si scioglierà tutto il male del mondo.
Se questo è ciò che vogliono, questo è ciò che avranno.

- Mi dispiace –
Le parole del medico gli risuonavano nella testa come il suono lugubre delle campane di notte.
- Mi dispiace, purtroppo il tempo che resta è poco –
Il nastro si stava riavvolgendo, percorrendo a ritroso quell’ultima mezz’ora, la più lunga, la più penosa della sua vita.
- Mi dispiace, purtroppo il tempo che resta è poco: sei, otto mesi al massimo –
Non era vero, non poteva essere vero: rivisitava con la memoria ogni singolo passaggio di quel discorso assurdo, pronunciato da un uomo vestito di bianco che teneva con aria grave la sua radiografia tra le mani.
- Mi dispiace, purtroppo il tempo che resta è poco: sei, otto mesi al massimo, ma molto dipende anche dalla qualità della vita…-

Volevano un malato? Ecco glielo stava dando, era capace anche lui, e che ci vuole? Buona tecnica e poco rispetto per chi ti legge, per chi ti valuta, per chi soffre davvero, per chi legge davvero, per chi scrive davvero, per chi leggendo va oltre la cortina delle lacrime di plastica. 
Lui ora ha un progetto di vita molto chiaro: è diventato un mestierante.

<Trattandosi di opera di fantasia, ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale>





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