Non è che lo faccio spesso, il brasato.
Anzitutto è un piatto molto costoso, in secondo luogo è facile, ma brigoso.
Questa volta però ne avevo davvero voglia e il macellaio mi ha preparato un pezzo di manzo da un chilo e mezzo che era spettacolare anche crudo.
L’ho messo a macerare con tutte le spezie, immerso nel vino, che non era Barolo.
Certo, se non si è chef, basta un vino simile, bisogna solo avere l’accortezza di farlo bollire due minuti prima di usarlo. Dopo due minuti di bollitura tutti i vini diventano più o meno uguali, se non si è chef.
Poi l’ho coperto e l’ho lasciato riposare.
Ogni tanto andavo a girarlo e a parlargli. Lo osservavo per capire se davvero si stava frollando, o se fingeva.
Un giorno intero così, ventiquattro ore.
Al momento della cottura lui era esausto, io tesissima.
Far rosolare un pezzo simile richiede grazia e massima attenzione: la crosticina deve essere uniforme, non troppo spessa, non troppo dura, e se in un piccolo punto diventa troppo scura l’incanto si spezza.
Per sicurezza, sul fondo della casseruola ho abbondato con olio e burro, che poi ho fatto sgocciolare fino ad eliminarli quasi del tutto, perché non restasse troppo grasso oltre a quello del lardo di Colonnata destinato a sciogliersi durante la brasatura.
Poi è iniziata la maratona del fuoco lento, quella che già dopo un’ora impregna la casa di un aroma spesso, lievemente alcolico, invernale e antico.
Ogni quarto d’ora provvedevo a girarlo, mantenendolo sempre umido e allungando il sugo di cottura con il brodo. No, non il brodo granulare: quello della pentola, quello di cappone, polpa, doppione e coda, per intenderci.
Altre tre ore così, sul filo della tenuta nervosa, rischiando grosso con la pentola di coccio, che è generosa e accogliente, ma suscettibile al fuoco troppo vivace.
Pentola di coccio, sottopentola di ghisa, brasato che bolle per tre ore: sto invecchiando, davvero.
Infine, l’ultimo passaggio.
Ho raccolto la carne, perfettamente uniforme e l’ho deposta su un piatto da portata.
Non è un caso che fosse una porcellana degli anni Trenta.
Poi ho preso il passaverdure. Quello manuale, quello con le rotelle.
Ho macinato, verificato la consistenza del sugo, aggiunto un cucchiaio di maizena e, già che c’ero, le verdure della pentola del brodo, in modo da farne una crema.
Ora la carne andava tagliata, sottile, senza romperla.
Il mal di schiena condiziona da giorni la mia mobilità, ma ho stretto i denti in questa impresa che ormai era diventata eroica: ho combattuto le fitte fino all’ultimo, tenendo ferma la carne con la mano, in modo che si sentisse rassicurata dal contatto.
Mi è riuscito tutto, come in stato di grazia.
Le fettine sono state deposte nuovamente nella terrina di coccio, coperte dalla crema.
E’ restato così una notte.
Ha ripreso una cottura lentissima mezzora prima di essere servito, solo per scaldarsi.
Ho aggiunto l’ultimo mestolo di brodo ed ho lasciato che andasse.
“Io ho fatto il possibile”- ho pensato- “ il resto è karma.”
Quando l’ho servito in tavola, accompagnato dal suo purè, un po’ tremavo.
Si è sciolto in bocca, memorabile, commovente, semplicemente perfetto.
Un equilibrio di aromi che aveva del miracolo, tutti distinguibili all’olfatto, tutti armonizzati al gusto, tutti ammorbiditi al tatto, tutti amalgamati alla vista in una densa crema rossa nella quale permaneva il vago ricordo del vino.
Non parlava, peccato.
Meraviglioso, il mio brasato è venuto meraviglioso.
Come si cambia però, con il tempo: una volta potevo frollare per tre giorni un manzo di novanta chili, ora raggiungo la perfezione con un chilo e mezzo di manzo.
Grazie per questo pezzo sinestetico, di grande umorismo e di gran talento.
RispondiEliminaMio caro, verrà l'occasione di fartelo assaggiare e non solo leggere?
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