domenica 7 aprile 2013

Elogio della resa


La limitante oggettività con la quale il dizionario fornisce definizioni alle parole, impone di tralasciare il senso delle esperienze personali che le parole stesse sottendono.
Consultando il dizionario alla voce “resa”, se ne traggono illuminanti varietà di significato, nessuna delle quali tuttavia restituisce, seppur minimamente, valore al termine nella sua determinante soggettività, in grado di modificare una volta per tutte, e senza ritorno, la vita di chi si arrende.
Se si tralasciano, per ovvi motivi, tutte le definizioni che riportano a risultati, rendimenti e restituzioni, la resa, intesa come capitolazione, caduta, cessione delle armi al nemico, viene letta con un implicito giudizio negativo, che impone sempre ulteriori valutazioni di natura opportunistica o tattica per poter risultare atto strategico e non vile ritirata di chi subisce la maggiore forza o la più convincente volontà di altri.
Naturalmente spesso si tratta proprio di questo e la definizione risulta ineccepibile.
Eppure esiste un’esperienza di resa che non ammette aggettivazioni, valutazioni e scrupolosi piani, ma può verificarsi nella vita di ciascuno facendole assumere una direzione tanto inaspettata, quanto inconsciamente desiderata. 
In questi casi la resa è una vittoria, la più completa, la più difficile.
Nel momento in cui accade di arrendersi, ci si accorge di non trovarsi davanti ad un evento circoscritto e determinato, ma all’epilogo di un processo che ha percorso una lunga strada di omissioni e dinieghi, lastricata di apparenze. 
Non ci si arrende per propria volontà, non lo si decide: lo si può pensare, lo si può esprimere a parole fino a convincersene, si può sviscerare l’argomento fino a far risultare la resa la più onorevole delle soluzioni, ma tutto questo, finché si riferisce alla sfera conscia, non rappresenta altro che la pallida ombra di ciò che potrebbe accadere, nei modi e nei tempi inaspettati e peculiari per ogni diversa persona.
Inevitabilmente la vita si costruisce intorno a ruoli, schemi e interpretazioni che corrispondono all’immagine che ciascuno ha, o desidera fornire, di se stesso, ma spesso si tratta di un piccolo gioco di finzioni che finisce per prendere la mano, concatenando conseguenti ruoli, schemi e interpretazioni che ogni volta si pretendono coerenti, fino a dar luogo ad un’identità di argilla nella quale è insita la doppiezza di essere rifugio e allo stesso tempo prigione.
Reggere questo gioco implica alzare la guardia, esercitare costante controllo, affinare le difese senza le quali l’identità che si calza come un abito tagliato su misura potrebbe mostrare crepe e sbavature, a cui non è concesso diritto d’esistere per non ritrovarsi nudi e fragili di fronte a una realtà che la finzione ha progressivamente portato a disconoscere e a vivere come una minaccia.
Inizia così una lotta contro un nemico inesistente, proiettato all’esterno quando invece è parte stessa di chi lo combatte, al quale vengono attribuiti tutti gli aspetti di ciò che spaventa colui che li teme, nella misura in cui sono parti di lui a cui non è stata data voce. 
Infine ci si affeziona alla lotta, divenuta parte dello schema, regola del gioco.
L’insensatezza, diventata norma, fa perdere di vista l’obiettivo, la causa e il sintomo, nel confondere le certezze, nel travisare persino i dubbi, nel deformare la propria identità profonda ad uso della propria maschera. 
Battersi per mantenere intatto lo schema diviene anestesia contro il dolore che procura il continuare a muovere sempre gli stessi passi di questa danza circolare.
Qualcosa, tuttavia, si insinua a incrinare l’ostinazione che si ripone nella lotta, può essere semplicemente un vago senso di stanchezza, o un malessere claustrofobico che inizia a prendere voce, prima con un sussurro, poi con sempre maggiore vigore fino a diventare un grido che non è più possibile ignorare.
Inizia la battaglia finale, la più dura, quella che impegna l’orgoglio a combattere per difendere ad ogni costo le stesse difese: in esse ci si arrocca, anche al prezzo di affidarsi alla più palese menzogna e di accettare qualsiasi espediente, pur di negare con disperata pervicacia una realtà che la resistenza ha solo l’effetto di rendere sempre più nitida.
Poi, improvvisamente, la resa.
Il terrore, che prima era immaginario, era paura della paura di se stessi, ora diviene reale nella mancanza di approdi: tornare indietro, ricominciare di nuovo, non sarebbe più possibile, perché ormai la finzione svelata non permette di raccogliere i cocci e ricostruire la maschera che il collante della negazione non terrebbe più uniti; la direzione che si prenderà è sconosciuta, alla disgregazione consegue una metamorfosi che porterà in una posizione eccentrica rispetto a quella che la resa ha costretto ad abbandonare.


Arrendersi è una vittoria su quella parte di sé che pretende di costruire e contenere la realtà attraverso il controllo di ciò che si decide di concedersi, di ciò che si stabilisce di essere, di ciò che si nega di ammettere, e poco importa se all’origine di questo processo nel quale ci si perde di vista ci sia stato un dramma, o uno stillicidio corrosivo di episodi insignificanti, o un senso di colpa senza fondamento. 
La resa non si spiega con le parole, si sente, si vive, incide a fuoco nell’anima la consapevolezza che nella vita non può accadere nulla di peggio della verità, ma che la verità è indispensabile.
Non ci si arrende allo stesso modo, può avvenire con grande teatro o nel dimesso silenzio della solitudine, ma sempre costituisce il primo necessario passo per riappropriarsi della propria più intima sostanza e per rapportarsi con gli altri senza bisogno di ricondurre, col giudizio, la loro vita agli schemi falsati della nostra.
La resa, in effetti, restituisce autenticità.
Per quanto potrà essere duro riordinare tutti i tasselli, in ciascuno di essi è contenuta l’ipotesi dell’insieme, un’immagine sorprendente che giorno dopo giorno permette di guardarsi allo specchio, riconoscersi, accettarsi e, soprattutto, assomigliarsi.


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