giovedì 25 aprile 2013

Un itinerario gastronomico attraverso il Principato di Seborga


Il piccolo Principato di Seborga, perla di rara bellezza incastonata tra le Alpi Occidentali e il Mar Ligure, è noto in tutto il mondo per la ricchezza e la prelibatezza della sua cucina, antichissima per tradizione, ma pure capace di riletture in chiave moderna di quella rara commistione di sapori e varietà di ingredienti che la identificano.
Il Principato di Seborga, per la sua fortunata posizione geografica, gode di clima mite tutto l’anno e questo permette di coltivare ogni sorta di pianta commestibile, anche grazie alle imponenti opere di terrazzamento realizzate su tutto il suo territorio. Vi vengono coltivate in particolare melanzane, scalogni e fave, e tra i frutti fragole e albicocche.
Il microclima seborgano, o seborgese, risulta soprattutto assai favorevole alla coltivazione delle arachidi, dalle quali gli abitanti traggono in primo luogo un olio molto saporito, che viene aromatizzato in molti modi ed esportato in tutto il mondo, ma che rappresentano anche un elemento alla base di molti piatti e condimenti.
Il terreno, aspro ma generoso, consente inoltre la crescita spontanea di una particolare erba, che costituisce cibo elettivo per il muflone, grosso caprino dalla carne eccellente, che i seborgani, o seborgesi, allevano cucinano in un migliaio di modi: il muflone sta infatti alla cucina seborgese, o seborgana, come il baccalà a quella portoghese. 
Con il suo latte inoltre vengono prodotti formaggi e preparati squisiti dolci, ma soprattutto da esso si trae la panna, usata come accompagnamento per molti piatti tradizionali.
Le pitture rupestri delle Grotte del Muflone, località poco distante dal capoluogo, testimoniano come il rapporto della popolazione seborgese, o seborgana, con il nobile Ovis Musimon abbia radici antichissime. 
Sono numerose le fonti che parlano della Muflomachia, praticata nel territorio seborgano, o seborgese, fino dal II sec. a.C., 
Questa tradizione si è tramandata fino ai giorni nostri attraverso la Festa del Muflone Candito, che si conclude dopo tre giorni di libagioni con la suggestiva corsa del muflone lungo le vie della città: l'allegoria vuole che un giovane animale, incoronato e addobbato con il drappo del Principato, venga inseguito da un gruppo di adolescenti, a loro volta travestiti da mufloni, in una sovrapposizione di ruoli dalla forte valenza catartica.
Va detto, tuttavia, che molto spesso per preparare i secondi di muflone, vengono usate carni bianche, in particolare di pollo o tacchino, o viceversa, il che dà luogo a una certa ambiguità, specialmente sui menu dei numerosi ristoranti del Principato: il petto di pollo di muflone alle acciughe vanigliate, o il carré di tacchino di muflone alla griglia, così come le cosce di muflone di pollo al forno con le fave, sono piatti che capita frequentemente di trovare sulle carte, ma se non ne risultano chiari gli ingredienti, la loro squisitezza fa ben presto dimenticare la confusione.
L’ultimo alimento alla base di questa gustosa cucina è il tonno: benché Seborga non affacci sul mare, tuttavia la tonnara di Seborga fornisce al Principato grandi quantità di questo pesce, di una qualità assai pregiata. 
Il tonno a Seborga viene servito sotto forma di tisana digestiva, o drenante nei casi di gotta e infiammazione renale, come olio essenziale per fumenti, impacchi e cataplasmi, oppure fresco: come piatto di mezzo o come antipasto, se ne fa un carpaccio con le frittelle di seitan e fragole. 
In autunno, nei boschi frondosi di Seborga, è possibile trovare il tartufo rosso, una qualità di tubero esclusiva della zona, dotata di profumazione particolarmente intensa, quasi un retrogusto di muflone.
Da sempre crocevia di culture, Seborga ha raccolto nella sua cucina i tratti caratteristici di ciascuna di esse, un un’originale rivisitazione, una sorta di sincretismo gastronomico che ha reso il piccolo Principato uno dei colossi mondiali del mangiare bene.

Oleb di Seborga
(Ritratto di autore sconosciuto)
Palazzo dei Principi
La tradizione seborgese, o seborgana, della buona tavola è testimoniata anche storicamente dall'imponente figura del Principe Oleb (1276-1361), il longevo sovrano che si dilettava tra i fornelli, al quale si attribuiscono numerose ricette, in particolare i tortelli ripieni di polenta, il muflone marinato con le acciughe e il budino caldo di fragole, arachidi e latte di muflone.
La statua di Oleb, che troneggia nella piazza principale della vecchia Seborga, lo raffigura infatti a cavallo di un muflone con un mestolo nella mano destra, mentre con la sinistra reca un vassoio sul quale ogni giorno i seborgesi, o seborgani, depongono da più di seicento anni un budino appena cucinato.
Nel 1975, per iniziativa della Principessa Marisa, e del suo consorte Principe Pier Leandro, è stata compilata una raccolta dei piatti tradizionali della cucina seborgese, o seborgana. Non si tratta di di un semplice ricettario, ma di una sorta di codifica definitiva delle pietanze del Principato e dei procedimenti corretti per prepararle secondo le usanze locali.
Ma cosa serviremmo in tavola, se volessimo preparare un tipico pranzo seborgano, o seborgese, per i nostri ospiti?
Dovremmo iniziare certamente con un antipasto, scegliendolo magari tra il carpaccio di muflone con scaglie di arachidi e panna montata, il muflone tonnato con crema fredda di melanzane e la spuma di muflone in gelatina.
Se i primi due piatti sono più indicati per la bella stagione, l’ultimo è tipico invernale, tant’è che è la pietanza che apre ogni pranzo o cenone durante le feste natalizie. 
Per realizzarlo il muflone va completamente disossato e sottoposto a triplice salatura, ciascuna della durata di un mese, intervallate da una settimana di macerazione prima nell’aceto, poi nell’olio di arachidi e infine nella panna. Alla fine della terza salatura, la carne viene aromatizzata con varie spezie e infine tritata con pasta di acciughe, una melanzana, uno scalogno, una manciata di fave lessate e poi messa in gelatina, in stampi singoli, o in un grande stampo da plum-cake per essere tagliata a fette. Guarnito con le immancabili scaglie di arachidi e spolverato di tartufo, questo piatto oltre a essere ottimo, è anche molto bello ed elegantissimo da servire in tavola.
Nell’usanza seborgese, o seborgana, tra un piatto e l’altro si assaggia una fetta di formaggio e si beve un abbondante bicchiere di vino, pertanto dopo il nostro antipasto è consigliato un bocconcino di mozzarella di muflone accompagnato dal Cortese di Seborga, un bianco leggero dalla boccata acidula, che ben si sposa con la complessità di sapori dell’antipasto e prepara il palato al successivo primo piatto.
Tra i primi, spiccano certamente i cavatappi al ragù di muflone, tonno e fave, le lasagne di tonno e arachidi e, soprattutto, la grande invenzione del vecchio Principe Oleb: i tortelli ripieni di polenta. 
Per prepararli si stende una sottile sfoglia di pasta all’uovo, che si riempie di palline di polenta gialla, condita con ciò che si preferisce: tonno, arachidi, fave, scalogno e melanzane sono gli ingredienti privilegiati della cucina seborgese, o seborgana, che più frequentemente troviamo nel ripieno dei tortelli di polenta, ma è possibile usare anche alcune primizie che giungono a Seborga dal vicino Piemonte o dal territorio Ligure - del quale il Principato rappresenta un enclave- in particolare castagne e acciughe
Chiuso il ripieno in una specie di caramella di pasta, si fanno bollire i tortelli nel brodo di carne di muflone con sedano, carota e cipolla, poi si scolano bene con la schiumarola e si servono conditi rigorosamente con burro, panna montata e una spolverata di tartufo. 
Talvolta i tortelli vengono consumati in brodo, che viene preparato più denso, immergendo nella pentola una spugna naturale, che viene tolta a fine cottura.
Un discorso a parte merita la zuppa di piume di piccione con caciomuflone e fave, poiché viene servita sia calda -come consommé- ma più spesso ghiacciata, una sorta di gazpacho seborgano, o seborgese, retaggio della dominazione degli Iberi durante il IV sec. a.C. 
Accompagnata da un abbondante bicchiere di Lacrima di Seborga, rosé leggero dal bouquet speziato, chiude la prima parte del pranzo seborgese, o seborgano e impone una pausa prima di passare ai secondi piatti.
Il gustoso muflone candito apre la parata dei secondi, gigante delle pietanze per armonia di sapori, frutto di una lunga procedura, che richiede l’impegno di almeno due cuochi per una settimana. 
Carrè di muflone candito
Il muflone candito, infatti, va cucinato intero in una larga casseruola, a fuoco lentissimo, in un fondo zuccherino che non deve mai coprirlo del tutto. Ad un letto di scalogno, melanzane, arachidi e fave, si aggiunge un po’ alla volta un vino bianco secco - ideale un Pinot grigio dell’Altocolle Seborgano, o Seborgese- fino a farlo addensare. Si aggiunge il muflone intero, corna e pelo compresi, e lo si fa rosolare girandolo spesso per due giorni, operazione che richiede che il muflone venga imbragato e venga installata una carrucola in cucina (anche se ogni casa seborgana, o seborgese, di fatto ne ha già una, proprio per poter cucinare questo piatto prelibato).
Quando la carne risulta uniforme, si aggiunge il brodo zuccherato e si copre il tegame, avendo cura di controllare ogni dieci-quindici minuti, che il livello del liquido sia costante, rigirando il muflone delicatamente ogni cinque o sei ore in modo che non si spezzi. Dopo quattro giorni di questa cottura, finalmente si possono aggiungere le castagne e, a cottura quasi ultimata la panna.
Nella variante estiva alle castagne vengono sostituite fragole o albicocche.
Ma si sbaglia chi dovesse pensare che i secondi piatti seborgesi, o seborgani, si fermino qui.
Si contende il primato della pietanza da principi anche l’ottima alce ripiena di albicocche, servita con le fave alla crema di cacao. Accompagnato da un bel bicchiere di Gorgoglio Reale di Seborga, rosso corposo dal gusto rotondo, con quel suo caratteristico bouquet di humus e peonia, questo piatto è la perfezione, ma è stato introdotto nella cucina del Principato solo in tempi moderni, sostituendo con l’alce il muflone, variante che ha reso questo piatto inviso ai puristi.

Fave in umido con scalogno e prosciutto di muflone
Non dimentichiamo però i cordon bleu di tonno con panatura di farina di fave, le polpette di muflone con scalogno melanzane e arachidi, il delizioso arrosto di petto di muflone farcito di tonno e albicocche, l’aromatico tonno allo scalogno e crema di melanzane.
L’autentico pranzo seborgese, o seborgano, procede con il tomino di muflone con purè di fave e con le melanzane alle arachidi, accompagnati dal superbo Primitivo di Seborga, rosso profumato a 14°, dal colore rubino assai brillante, prodotto unicamente dalla Casa Regnante.
In chiusura, il budino caldo di fragole, arachidi e latte di muflone, che nella ricetta originale prevederebbe la guarnizione di scalogno caramellato, andata persa in tempi moderni. 

Budino caldo di fragole, arachidi e latte di muflone, con scalogno caramellato
È proprio il caso di dire che il pasto seborgese, o seborgano, è veramente principesco, ma non può dirsi veramente concluso se non lo si fa seguire da una tisana di tonno e da un bicchierino di Amaro del Principe, una miscela digestiva ottenuta dalla macerazione di zampe di muflone con quaranta erbe, secondo una procedura il cui segreto è custodito dai frati del monastero della Beata Marisa di Seborga: il prodigioso liquore consente di alzarsi da tavola leggeri, conservando negli occhi lo spettacolare panorama di cui si gode dalla rocca del piccolo Principato, nel cuore il ricordo di una terra che difende gelosamente le proprie tradizioni, e nel palato l’esperienza unica di una cucina ricca di suggestioni e impregnata di storia.

Locali consigliati:

Antica Hostaria Al Corno del Muflone ***
Via Corno del Muflone 1, Seborga
Tra specchi e stucchi, fiori e dipinti, capiterà di sedersi sui velluti rossi del tavolo che ospitò i Principi Marisa e Pier Leandro di Seborga. Cantina eccellente, possibilità di degustare il Prestigioso di Seborga, brut millesimato in bottiglie numerate.
Cucina tradizionale  Menu: 55€/ 80€ - Carta: 73€/106€
Chiuso il lunedì

La Cava dell’Arachide e della Fava **
Via dell’Arachide 23/a, Seborga
A prima vista può sembrare una semplice trattoria, ma non lasciatevi ingannare: il locale propone la cucina tipica seborgana, o seborgese, elaborata e fragrante. Ampia scelta di vini e formaggi.
Cucina tradizionale Carta: 36€/70€
Aperto solo la sera, i festivi anche a mezzogiorno.
Sala da cerimonie.

Nonsolomuflone *
Via Circonvallazione Del Muflone Candito 107, Seborga
Ambiente informale, pizzeria, stuzzicheria, propone ampia scelta di pizze tipiche seborgesi, o seborgane, crostini, panini e kebab di muflone. Buona scelta di birre, tra le quali la Scarlet Musimon Wine, rossa ad alta gradazione di produzione locale.
Pizza, cucina tradizionale rivisitata, cucina etnica Carta: 18€/35€
Aperto tutti i giorni. Accetta prenotazioni. Dopo mezzanotte.


lunedì 22 aprile 2013

Risveglio


Non è necessario un secondo squillo: sono già sveglia.
Nessuna concessione al delizioso stato di ridefinizione della coscienza, nessun indugio, una macchina da guerra, risorta dalla breve morte di un sonno benedetto dalle benzodiazepine, pronta a ripartire per affrontare un serrato ruolino di marcia. 
Sopravvivenza spicciola, quasi un vanto, come se non fosse necessario, indispensabile, sine qua non.
Appena risorta – e senza aloni di luce che lascino ipotizzare il miracolo quotidiano di un risveglio- devo risistemare il letto. 
Odio i letti sfatti, nulla mi dà maggior senso di trasandatezza, eccetto forse il crollo di un ponte, o le immagini di un disastro ferroviario. Sempre di ponti e disastri si tratta, del resto, sottili ponti di incoscienza vicini alla morte, disastri di deviazioni oniriche dalla logica che dispone con cura i mattoni del suo muro intorno alle nostre ingenue fantasie.
Nonostante tutto, si risveglia con me anche il rifiuto e inizio un altro giorno da funambola, in bilico tra dovere e volere, tra condizioni e condizionali.
Lo specchio, per banale che possa sembrare, mi rimanda una delle poche certezze sulle quali possa contare: quella sono io, che non faccio mai in tempo ad arrivare a conoscermi che già sono costretta a cambiare di nuovo. Mutevole come un caleidoscopio, destinata ad altri cinquecento anni da fenice prima dell’ennesimo rogo.
Sono sfinita, ma vado avanti forse perché mi piaccio, forse perché ormai ci sono abituata a vuotare e riempire cassetti per traslocare l’anima. 
Ne approfitto per fare un po’ d’ordine, magari capita che trovo un’effimera chiarezza sulla quale adagiarmi a prendere un attimo di respiro, magari oggi succede qualcosa di bello, perché no?
Non succede niente quasi mai, e ancora meno spesso accade qualcosa di bello, di veramente bello, ma anch’io ho avuto il tempo della mia immortalità e sono stata abbastanza intelligente da fare un pieno di bellezza quando ancora non avevo bisogno di fare scelte, prima che le scelte mi chiudessero molte strade, prima che le strade franassero sotto i miei piedi lasciandomi appesa con le unghie al dirupo. 
Ma mi sento ottimista, nonostante sia difficile trovare un paio di calzini in mezzo al caos e benché i lacci delle scarpe mi brucino il tempo a disposizione per preparare il caffè.
I ragazzi si svegliano: mia figlia entra nel bagno, beatamente assonnata, quasi piegata dal cespuglio di capelli che la fanno apparire una giovane Erinni. 
In qualche modo riporta giustizia, è l’incarnazione di ogni valido motivo possibile per aver fatto scelte, essersi preclusa strade, restare aggrappata al dirupo. Lei è ancora immersa nell’immortalità e il mio compito è darle il tempo per riempirsi a sua volta di bellezza, per affrontare la sua vita che già si preannuncia dura. 
Suo fratello, bruno e statuario, silenzioso e discreto si prepara in camera da letto: da quando i suoi piedi hanno bruciato in lunghezza i nostri, difende con accanimento un pudore che è diventato privacy. Vorrei abbracciarlo ancora come quando era più piccolo e qualche volta lo faccio, ma non c’è più l’innocente sensualità di un bambino e ora sono imbarazzata quanto lui.
Siamo loro ed io, io e loro, nessun altro.
Abbiamo ricordi solari e dolorosi da condividere o da tacere, abbiamo un amore da coltivare nelle lacrime o nel silenzio e una vita davanti, ancora da scoprire.
Non è necessario un secondo squillo: sono già sveglia.
Ho i miei ottimi motivi per ritornare in fretta dal sogno alla veglia, per non concedere nulla al torpore e per affrontare i miei dubbi in perfetta coscienza. 
Ho due ottimi motivi, i miei figli. 
Anzi, di motivi ne ho tre: ci sono anch’io, che non soffoco più il grido, che ascolto le mie voci e che mi tengo stretto tra le mani il buco nello stomaco cercando di fermare il panico nel modo più semplice.
Non avere paura, non avere paura, non avere paura, ci sono qui io”.
Io chi? 
Quella dello specchio, quella che alla mattina non ha tempo neppure di farsi il caffè, che non trova i calzini, che adora i suoi figli, quella che ama la vita, malgrado tutto.
E allora sento la forza di un torrente, dell’acqua che leviga i sassi, scivola, rotola, ruggisce, scroscia, scende a valle e si perde nel mare, finalmente, perché l’orizzonte non è mai abbastanza lontano da non avere voglia di inseguirlo. 


mercoledì 10 aprile 2013

Sui vantaggi del vivere con un cane


Io dedico parecchio spazio ad attività che ad altri potrebbero sembrare perdite di tempo, ma che per me significano invece recuperarlo: per me infatti è il tempo sottratto ai cosiddetti doveri quello che vale la pena di vivere, e non viceversa. 
È  stato il cane ad insegnarmi questa verità su di me.
Sono una persona che fa conti, ogni giorno. 
Tiro file ordinate con estrema precisione, ma non si sa perché sono sempre in dare. 
È vero, talvolta arrotondo per eccesso per non avere sorprese, ma per quanto accorpi, scorpori e scenda a compromessi, resto sempre in dare. 
Ho un bel da vantare crediti con la vita, ma non serve: a volte mi sembra che il destino continui a mandarmi ingiunzioni di pagamento prima che possa formulare una qualsivoglia richiesta di rimborso. 
A volte mi dico che ho pagato tutto in anticipo e che, prima o poi, potrò vivere di rendita.
Per fortuna, però, ho un cane. 
Considero il cane il compagno ideale per chi fa conti, e benché tutti affermino che un cane fa compagnia, per me non è certo questo il suo maggiore pregio. 
Dal mio punto di vista, un cane non fa compagnia, o comunque non più di tanto, ma è uno straordinario motivatore, impone di trovare il tempo da dedicare ai pensieri. 
Poiché un cane non parla e al più può rispondere agitando la coda, o creando diverse geometrie con le orecchie, penso che chi possiede un cane parli a se stesso molto più frequentemente di chi non lo possiede, in un esercizio quotidiano che inizialmente può apparire una grossa seccatura, ma con l’andare del tempo diventa momento indispensabile di solitudine. 
Molti potrebbero opinare che il tempo bisogna averlo, ma si tratta di un’obiezione dettata dalla miopia di chi non si accorge che di tempo se ne ha fin troppo.
Basta evitare di dedicarlo ad attività sterili, se non del tutto insensate, come fare la fila alle Poste, cercare parcheggio, compilare pagine e pagine di  documenti richiesti dall’assurda burocrazia che funesta qualunque lavoro, spiegare qualcosa a persone stupide, di tempo ce n’è tanto.
Ritengo che a coloro che possiedono un cane possano bastare anche cinque o sei ore di sonno, se ci si abitua, e che il tempo sia in grado di moltiplicarsi e quindi possa essere dedicato ai pensieri, in un quotidiano contatto con se stessi assai riposante, che permette di trovare e mantenere un sano equilibrio, quello indispensabile per affrontare l’inerzia insofferente di una fila alle Poste, la nevrotica ricerca di un parcheggio, la surreale inutilità di certe procedure, la pazienza che occorre per stare in continuo contatto con la gente.
La mia trentennale esperienza mi dice che chi possiede un cane va a piedi e ama passeggiare nella solitudine dei parchi di prima mattina, quando gli altri ancora dormono. Quando le Poste aprono, hanno già vissuto un’ora di silenzio, sono pronti, vestiti, rilassati e se devono sbrigare faccende non fanno fila, liberando così altro tempo che si accumula e si moltiplica fino a diventare infinito.
Io non esco con il cane nei momenti di pausa, bensì vivo pause nella giornata in cui non esco con il cane, ma faccio altro, l’altro necessario alla sopravvivenza, ma per fortuna si tratta di pause brevi e passano in fretta. 
Non è tanto questione di lavorare quattro, oppure otto ore, ma di comprimere e relativizzare, sospendendo la coscienza, tutto il tempo delle pause durante le quali non passeggio con il cane, e di dilatare al contrario il tempo dedicato alle passeggiate e ai miei pensieri. 
Così otto ore di lavoro possono pesare come otto minuti e un’ora di passeggiata diventare una vita.
Siccome i conti non mi tornano mai, ogni giorno ho la possibilità di rifarli, sperando in un errore, o in un miracolo, o più semplicemente ignorando i risultati delle mie somme per godermi in santa pace l’aria fresca del mattino.
Un po’ alla volta ho creato relazioni con altri che hanno compreso il potere segreto dei cani, o incrocio volonterosi podisti che scappano dai pensieri correndo. 
Quando le Poste aprono, ho già scambiato un numero consistente di sorrisi.
Che si tratti di un pretesto appare ovvio, tuttavia penso che se un pretesto funziona, allora diventa verità e va bene così.
In più ho sperimentato che coloro che possiedono un cane hanno sempre una storia personale che vale la pena di ascoltare. 
A dire il vero una storia ce l’hanno tutti, ma sono così indaffarati da non avere mai l’occasione di scambiarla con le storie degli altri, mentre chi è padrone di un cane il tempo ce l’ha e quasi sempre anche la voglia, cosicché il raccontare ed ascoltare diventa un’abitudine consolidata che si può spendere anche nei rapporti con persone che un cane non sanno neppure come sia fatto, con il risultato di accrescere un’esperienza del mondo superiore a quella di chiunque altro, lettori accaniti ed avventurieri compresi.
Le conoscenze che ho maturato in tanti anni di passeggiate, hanno formato una rete che si è infittita di fili, che diventano risorse: pratiche o emotive che siano, queste risorse sono entrate in una tasca dal cui fondo posso attingere ogni volta che occorre l’aiuto di una storia dalla quale imparare come aiutarmi da me. 
Nel capitolo che sto vivendo della mia vita, chi mi sta aiutando di più è proprio il cane.
Alle sei di mattina sono quasi sempre sveglia, alle sette meno un quarto sono già pronta per uscire, dopo aver sbrigato alcune faccende domestiche. 
È meglio d’estate, quando c’è già luce e l’aria del mattino è bellissima, ma anche in inverno non va male, nonostante il buio e il freddo: basta coprirsi bene, e chi possiede un cane, ha certamente anche un cappello. 
Ogni giorno non sono ancora le sette del mattino che già sono fuori, con la musica in cuffia, i miei conti in testa, a cercare nel parco l’inizio, le origini di questa situazione, della mia solitudine, del mio amore per i cani e dell’equilibrio che mi occorre per affrontare la vita.
Non è poco, alla faccia degli alibi per soffrire in vite molto più semplici della mia. 
Anzichè perdere tempo a piangere sulle mie vere o presunte miserie, piuttosto che pagare a ore professionisti dell’igiene mentale, penso che se tutta la gente ammalata di vita si prendesse un cane, limiterebbe il tempo dedicato a lamentarsi e avrebbe occasioni di reale confronto con se stessa. 
Alla fine, per quanto i conti possano apparire in dare, avendo un cane si guadagnano tanti di quei crediti, che alla fine se non si fa una patta è perché ci si ha guadagnato.




domenica 7 aprile 2013

Elogio della resa


La limitante oggettività con la quale il dizionario fornisce definizioni alle parole, impone di tralasciare il senso delle esperienze personali che le parole stesse sottendono.
Consultando il dizionario alla voce “resa”, se ne traggono illuminanti varietà di significato, nessuna delle quali tuttavia restituisce, seppur minimamente, valore al termine nella sua determinante soggettività, in grado di modificare una volta per tutte, e senza ritorno, la vita di chi si arrende.
Se si tralasciano, per ovvi motivi, tutte le definizioni che riportano a risultati, rendimenti e restituzioni, la resa, intesa come capitolazione, caduta, cessione delle armi al nemico, viene letta con un implicito giudizio negativo, che impone sempre ulteriori valutazioni di natura opportunistica o tattica per poter risultare atto strategico e non vile ritirata di chi subisce la maggiore forza o la più convincente volontà di altri.
Naturalmente spesso si tratta proprio di questo e la definizione risulta ineccepibile.
Eppure esiste un’esperienza di resa che non ammette aggettivazioni, valutazioni e scrupolosi piani, ma può verificarsi nella vita di ciascuno facendole assumere una direzione tanto inaspettata, quanto inconsciamente desiderata. 
In questi casi la resa è una vittoria, la più completa, la più difficile.
Nel momento in cui accade di arrendersi, ci si accorge di non trovarsi davanti ad un evento circoscritto e determinato, ma all’epilogo di un processo che ha percorso una lunga strada di omissioni e dinieghi, lastricata di apparenze. 
Non ci si arrende per propria volontà, non lo si decide: lo si può pensare, lo si può esprimere a parole fino a convincersene, si può sviscerare l’argomento fino a far risultare la resa la più onorevole delle soluzioni, ma tutto questo, finché si riferisce alla sfera conscia, non rappresenta altro che la pallida ombra di ciò che potrebbe accadere, nei modi e nei tempi inaspettati e peculiari per ogni diversa persona.
Inevitabilmente la vita si costruisce intorno a ruoli, schemi e interpretazioni che corrispondono all’immagine che ciascuno ha, o desidera fornire, di se stesso, ma spesso si tratta di un piccolo gioco di finzioni che finisce per prendere la mano, concatenando conseguenti ruoli, schemi e interpretazioni che ogni volta si pretendono coerenti, fino a dar luogo ad un’identità di argilla nella quale è insita la doppiezza di essere rifugio e allo stesso tempo prigione.
Reggere questo gioco implica alzare la guardia, esercitare costante controllo, affinare le difese senza le quali l’identità che si calza come un abito tagliato su misura potrebbe mostrare crepe e sbavature, a cui non è concesso diritto d’esistere per non ritrovarsi nudi e fragili di fronte a una realtà che la finzione ha progressivamente portato a disconoscere e a vivere come una minaccia.
Inizia così una lotta contro un nemico inesistente, proiettato all’esterno quando invece è parte stessa di chi lo combatte, al quale vengono attribuiti tutti gli aspetti di ciò che spaventa colui che li teme, nella misura in cui sono parti di lui a cui non è stata data voce. 
Infine ci si affeziona alla lotta, divenuta parte dello schema, regola del gioco.
L’insensatezza, diventata norma, fa perdere di vista l’obiettivo, la causa e il sintomo, nel confondere le certezze, nel travisare persino i dubbi, nel deformare la propria identità profonda ad uso della propria maschera. 
Battersi per mantenere intatto lo schema diviene anestesia contro il dolore che procura il continuare a muovere sempre gli stessi passi di questa danza circolare.
Qualcosa, tuttavia, si insinua a incrinare l’ostinazione che si ripone nella lotta, può essere semplicemente un vago senso di stanchezza, o un malessere claustrofobico che inizia a prendere voce, prima con un sussurro, poi con sempre maggiore vigore fino a diventare un grido che non è più possibile ignorare.
Inizia la battaglia finale, la più dura, quella che impegna l’orgoglio a combattere per difendere ad ogni costo le stesse difese: in esse ci si arrocca, anche al prezzo di affidarsi alla più palese menzogna e di accettare qualsiasi espediente, pur di negare con disperata pervicacia una realtà che la resistenza ha solo l’effetto di rendere sempre più nitida.
Poi, improvvisamente, la resa.
Il terrore, che prima era immaginario, era paura della paura di se stessi, ora diviene reale nella mancanza di approdi: tornare indietro, ricominciare di nuovo, non sarebbe più possibile, perché ormai la finzione svelata non permette di raccogliere i cocci e ricostruire la maschera che il collante della negazione non terrebbe più uniti; la direzione che si prenderà è sconosciuta, alla disgregazione consegue una metamorfosi che porterà in una posizione eccentrica rispetto a quella che la resa ha costretto ad abbandonare.


Arrendersi è una vittoria su quella parte di sé che pretende di costruire e contenere la realtà attraverso il controllo di ciò che si decide di concedersi, di ciò che si stabilisce di essere, di ciò che si nega di ammettere, e poco importa se all’origine di questo processo nel quale ci si perde di vista ci sia stato un dramma, o uno stillicidio corrosivo di episodi insignificanti, o un senso di colpa senza fondamento. 
La resa non si spiega con le parole, si sente, si vive, incide a fuoco nell’anima la consapevolezza che nella vita non può accadere nulla di peggio della verità, ma che la verità è indispensabile.
Non ci si arrende allo stesso modo, può avvenire con grande teatro o nel dimesso silenzio della solitudine, ma sempre costituisce il primo necessario passo per riappropriarsi della propria più intima sostanza e per rapportarsi con gli altri senza bisogno di ricondurre, col giudizio, la loro vita agli schemi falsati della nostra.
La resa, in effetti, restituisce autenticità.
Per quanto potrà essere duro riordinare tutti i tasselli, in ciascuno di essi è contenuta l’ipotesi dell’insieme, un’immagine sorprendente che giorno dopo giorno permette di guardarsi allo specchio, riconoscersi, accettarsi e, soprattutto, assomigliarsi.