mercoledì 24 febbraio 2016

L'IO dubitante

1- Il Viaggio
Quando cominciai il viaggio ero sola.
Avevo però una bicicletta e uno zaino: la bicicletta era dotata di un lucchetto, di cui tuttavia non possedevo la chiave; quanto allo zaino, ignoravo cosa contenesse.
L’equipaggiamento era evidentemente inadeguato, ma io partii lo stesso.
Questa valutazione la dò ora, ma allora non ne sarei stata capace: ero sola, portavo con me una bicicletta con un lucchetto senza chiave, uno zaino di cui ignoravo il contenuto e non avevo memoria.
Non un ricordo di me, di chi fossi stata prima, né dei significati delle cose.
È quasi impossibile fornire una descrizione di me in quel momento, poiché siamo abituati a collocare le esperienze nello spazio e nel tempo, così che anche l’idea dell’essere sospesa presupponeva un dove e un quando che allora mi erano estranei.
C’ero io, con la mia bicicletta e il mio zaino, materializzata dal nulla in un luogo di cui avevo cognizione senza mai averne avuto alcuna esperienza, in mezzo ad una realtà fatta di dettagli di cui sapevo il nome e lo scopo, ignorando tuttavia da dove mi fosse venuta questa conoscenza.
Di più: non mi ponevo neppure il problema.
Io ero lì.
Per iniziare il viaggio dovetti prendere un mezzo pubblico e ricordo bene che mi si pose subito l'interrogativo del trasporto della bicicletta : se l'avessi lasciata alla fermata senza chiuderla col lucchetto, sicuramente me l’avrebbero rubata ; se l’avessi chiusa non avrei più potuto aprirla.
Mi sembrò ovvio portarla con me, benché fosse una brutta bicicletta color senape alla quale non ero particolarmente affezionata.
Non mi resi conto subito di essere salita su un batiscafo, ma in ogni caso non me ne preoccupai affatto, dal momento che non sapevo neppure dove fossi diretta e perché fosse così urgente – perché era molto importante che mi imbarcassi su quel mezzo – salire ad ogni costo, con o senza bicicletta color senape con il lucchetto a senso unico.
Il sistema di apertura delle porte del batiscafo mi colpì molto: si scendeva all’interno di un ampio vano illuminato da plafoniere rettangolari attraverso una scala che appariva e scompariva grazie a cuscinetti d’aria. La scala era alquanto solida, in ferro, eppure l’aria permetteva che si potesse aprire e chiudere muovendo una semplice leva. I bracci meccanici sbuffavano come grossi stantuffi, spandendo fumo sull’ingresso della sala.
All’interno del vano, grande e vuoto, si percepiva chiaramente di trovarsi in un ambiente pressurizzato, tanto che mi balenò immediatamente il pensiero di cosa sarebbe accaduto se in batiscafo si fosse spezzato nel cuore di qualche sconosciuto abisso, se cioè avrei avuto il tempo di risalire in superficie, evidentemente abbandonando la bicicletta color senape, oppure avrei trovato la morte sul fondo, in una confusione di lamiere spaccate dalla pressione e raggi di ruota contorti.
Non avevo paura, formulavo un’ipotesi.
Durante il viaggio ricordo di aver provato un solo sentimento: la sorpresa.
Non ne conoscevo altri e non avevo paura perché non sarei stata in grado di dare un senso a questa parola.
L’assenza di memoria, infatti, era mancanza di significati: conoscevo tutti i significanti ma non ero in grado di dare loro un senso.
La mia stessa esistenza era solo un significante, perché il significato era la meta del mio viaggio, per quanto io allora non lo sapessi – ammesso che avessi consapevolezza di sapere o non sapere qualcosa.
Continuavo ad essere sola, eppure c’era stato qualcuno a muovere la leva della scala, ma era sparito.
Quando vidi che sulle pareti del batiscafo si aprivano degli oblò, mi avvicinai e cominciai a guardare fuori, così mi accorsi che non ci trovavamo nelle profondità marine, ma sospesi nell’aria, all’interno di una sorta di dirigibile gonfio di vuoto, costruito con ferro pesante e pelle sottile, così forte da poter sopportare la pressione di un abisso, ma così leggero da poter volare.
Formulai un’altra ipotesi: e se la membrana si fosse spaccata? Immaginai di precipitare in un groviglio di pelle e copertoni di bicicletta esplosi.
Si volava lungo alte rotaie di roccia rossastra, graniti acuminati che minacciavano il cuscino d’aria che ci teneva sospesi. Le punte rocciose graffiavano la pelle rigonfia, eppure si continuava a volare al di sopra di un panorama che mutava continuamente.
Ad un tratto sorvolammo una chiesa in rovina, il cui sagrato era stato trasformato in un cimitero di cianfrusaglie: vecchi pneumatici, materassi sfondati, batterie d’auto – una delle quali aveva inciso il mio nome - bombole di gas che giacevano sul terreno come carcasse di animali di ferro senza vita.
Il posto aveva una sua bellezza e in ogni caso mi incuriosì.
Scesi a questo strano capolinea senza più curarmi della bicicletta color senape col lucchetto prepotente : poteva restare aperta, appoggiata lungo il muro della chiesa, confusa con gli oggetti di scarto di quel giardino .
All’interno la chiesa era stata trasformata in un grande appartamento, con una bella cucina arredata con mobili antichi. Dentro una piccola credenza erano disposti con cura pezzi spaiati di vecchi servizi da caffè, vasetti da fiori minuscoli, tanto da contenere una sola margherita alla volta, una rubrica del telefono con apertura a scatto.
Il posto mi parve bello e la giornata era chiara, rinfrescata da un vento leggero che gonfiava le lunghe tende appese alle finestre come vele.
Mi avvicinai ad una di esse e guardai fuori: vidi che quel lato della collina mostrava una salita piuttosto aspra, lungo la quale si muovevano appesi nell’aria i sedili di pietra di una seggiovia, pesanti panchine sostenute da semplici fili, che salivano sfiorando le pareti della chiesa verso una cima invisibile e lontana.
Sotto i sedili, lungo la ripida strada ghiaiosa, anziani contadini sfidavano la fatica salendo, ansimando, forse cantando.
Mi parve tutto molto bello.
Mi voltai e alle mie spalle c’era un grande letto con alti materassi dove immaginai di fare l’amore, se lui – quale lui, che non avevo memoria di nessuno?- avesse accettato di venire con me.
Il pensiero che mi venne allora fu quello di una nascita, dell’inizio di una vicenda il cui svolgimento dipende dalla risposta che viene data all’ingresso del protagonista.
“Eccomi, sono qui”
È l'eroe di un racconto che si scriverà da solo, nel quale la mano che scrive appartiene a ciò che viene scritto.
E dalla risposta dipende il seguito, lo svolgimento di quel vago disegno che conosciamo e di cui abbiamo perso memoria .
La risposta è il filo sottile che seguiamo per ritrovare l’origine, e mentre la storia si scrive da sé formiamo un gomitolo, che teniamo tra le mani.
Ogni bambino tiene tra le mani il capo di un filo.
“Eccomi sono qui”
“ Sei in ritardo" " Sei in anticipo" " Cosa ci fai tu qui?”.
E il filo segue una via.
“Eccomi, sono qui”
“Finalmente”
E il filo segue un’altra via.
La storia si scrive da sé, ma nel seguire il nostro filo, nel formare il gomitolo che stringiamo tra le mani, stiamo scucendo un tessuto che esisteva già e di cui avevamo solo un vago ricordo.
Viviamo a ritroso, camminiamo all’indietro.
Mi venne in mente di guardare cosa avevo dentro allo zaino.
Pane, una torcia, calze, un cappello, guanti, una lampada a stelo, cibo, strumenti di cui avevo bisogno senza che fossi mai riuscita a formularne il pensiero, altri che dovevano esserci, altri ancora che avrebbero potuto essermi utili, cose che mi piacevano, e più mettevo la mano all’interno dello zaino, più estraevo oggetti e mi si materializzavano di fronte, e parole, nomi, idee che prendevano forma, significati che conoscevo da sempre e non ricordavo, neppure il tempo di pensare davvero che già c’erano, neppure il tempo di pensare a tutto perché c’era tutto, tutto era bianco, un contenuto assoluto.
E tutto questo non occupava uno spazio e non aveva avuto inizio , era qualcosa che esisteva dal momento che ero esistita io, che ero esistita da sempre in un luogo assoluto.
Volevo tornare indietro, volevo tornare a qualcosa, ma ancora non sapevo a cosa.
Sapevo che c’era la luce, c’era il vento leggero, c’era un letto per dormire e fare l’amore, c’erano vecchie tazzine spaiate, uno zaino che conteneva l’assoluto e la mia bicicletta aperta lungo il muro della chiesa, una seggiovia di pietra sospesa nell’aria e carcasse di oggetti inutili seminati su un sagrato.
Mi sarei potuta fermare, ma non volevo, mi sarei potuta unire ai vecchi contadini, o scendere lungo la collina in bicicletta, ma non era quella la mia via.
Non mi restava che scrivere la mia storia, e se fosse stato necessario riscriverla ogni volta che non avessi saputo da che parte indirizzare il mio cammino.

2- L’arrivo
Sono nata, almeno credo.
Numerosi indizi mi confermano che non si tratta di una mia illusione – tra l'altro senza pretesa di fregiarsi del titolo di percezione- ma di un fatto storico.
Eppure potrei dubitarne, se non altro perché una immaginazione, laddove fosse pura essenza autoreferenziale, potrebbe aver costruito tutto, compreso quel senso di appartenenza al quale attribuire il possessivo “mio”.
Tuttavia, avvertendo la necessità di raccontare una vita, fosse anche la stessa pulsione a farlo figlia del medesimo puro spirito immaginante, occorre partire da alcuni punti che vanno considerati fermi: dunque io sono nata.
Sono un essere attualmente vivente in un'epoca definita, in un luogo preciso, con caratteristiche oggettivamente riconosciute.
Posso dubitarne, discutere su ogni termine della precedente proposizione, ma devo considerare la mia nascita l'incipit della mia storia personale.
Potrei spingermi più a ritroso, parlando dei genitori, dei nonni o dei bisnonni, fino a risalire agli albori della storia dimostrando con chiara evidenza che io non sono nessuno, nulla se non un anello qualsiasi di una catena di aminoacidi organizzati in strutture complesse.
Nulla se non ci fosse, in un tempo indefinito, in un luogo impreciso, con caratteristiche oggettivamente inconoscibili, la mia anima che parla.
Si è soliti, per convenzione e pur nel rispetto di credo diversi, attribuire un luogo, un tempo e un corpo alle anime, benché viceversa non sia obbligatorio assegnare l'anima a qualsiasi corpo, come del resto è ampiamente dimostrato dai fatti storici, ammesso che anch'essi non siano frutto di ampia socializzazione di immaginari comuni.
A quest'anima che parla è stato assegnato corpo di genere femminile, dato oggettivo quantomeno dal punto di vista biologico, perché la questione squisitamente emotiva connessa al sesso risulta irrilevante alla nascita, specie per il diretto interessato.
Certo, intorno alla creatura immediatamente si compongono aspettative affatto diverse che ne condizioneranno l'educazione, l'assegnazione dei ruoli ed i relativi dettagli -anche minimi - ma quando il nuovo nato ne prenderà coscienza, talvolta parecchi anni dopo, i giochi saranno già stati fatti e gli effetti saranno irreversibili, indipendentemente dalle scelte personali, che appunto verranno considerate conformi, o viceversa alternative, a proiezioni predefinite secondo modelli convenzionali.
L'invocare necessità naturali a sostegno di stereotipi sociali pare espediente volgare destinato a rafforzare ulteriormente i condizionamenti , già opprimenti a sufficienza.
La modesta leggenda di quest'anima narrante immersa nel relativo corpo, vuole che il coagulo che ne è derivato - quell'individuo che chiamo "Io"- sia faticosamente emerso dal corpo di una madre -la mia, quella che l'anima ha profondamente amato - dopo quasi due giorni di tormenti, con gli occhi spalancati, il corpo tumefatto di lividi e la totale mancanza di fiducia primaria.
Non ricordo di aver attivamente partecipato all'avvenimento, ma in qualche recesso di memoria devo averne conservato l'impronta, quella che spiegherebbe la claustrofobia e l'inclinazione alla diffidenza.
Ed eccomi qui, a raccontare una vita, quella che credo la mia, della quale non ricordo il momento iniziale, determinante.
Eccomi, caduta nella trappola di narrare ciò che mi è stato narrato da altri, che hanno creduto di assistere ad un avvenimento che si colloca perfettamente in altre vite - quelle che coloro che ricordano credono le loro - ma non in quella del diretto interessato.
Nessuno, quindi, mi può garantire che tutto sia avvenuto come mi si racconta, neppure se le diverse versioni coincidono quasi perfettamente.
Potrebbe essere un'interpretazione condivisa, un'allucinazione collettiva, magari un complotto, che nulla ha a che fare con ciò che è realmente accaduto a me ed ho provato io.
Questo io, trascinato in un'avventura senza avere possibilità di parlarne con certezza, né di ricordarne i dettagli o di vederne altro se non il riportato di persone che a loro volta non ricordano nulla della loro vera o presunta nascita, sembra frutto dell'ironia perversa e feroce insita in un progetto, del quale tutti fanno parte.
La scienza ha avuto la pretesa di spiegare il fenomeno di questa clamorosa amnesia, ma per quanto siano state elaborate teorie e prove a sostegno di esse, la chiave di lettura e la loro stessa ideazione sono parto di menti definite adulte e strutturate come tali, che al massimo possono essersi spinte fino a tentativi d'immedesimazione che ritengo grotteschi, essendo attuati da persone che a loro volta non ricordano di essere nate.
Dicono che alla nascita non esiste alcuna consapevolezza della propria esistenza e che persiste a lungo il legame simbiotico con la madre, finché non si acquista coscienza di essere altro da lei, ma da cosa derivi questa stravagante convinzione nessuno è in grado di spiegarlo in modo convincente.
Forse non si nasce, ma più semplicemente si passa in una dimensione diversa con regole totalmente estranee a quelle precedenti.
Si sono studiate le percezioni dell'embrione e del feto, fatto che pare assurdo se riferito unicamente ad un corpo in diverse fasi di sviluppo, laddove non si individui anche un'anima, quella che già ha coscienza, un sentore di esistenza eterno ed assoluto, quella che conferisce all'essere in fieri l'individualità che già, tuttavia, dovrebbe esistere anche nel mezzo io potenziale che alloggia in ogni spermatozoo o in ogni ovulo, con enorme spreco di anime ad ogni mancato concepimento, a meno che quest'ultimo non rappresenti l'esatto momento nel quale qualche anima in lista d'attesa trovi una sua collocazione, magari del tutto casuale, in  un corpo destinato a venire alla luce.
Già la casualità biologica insinua un senso di precarietà nell'esistenza, senza che ci si metta anche l'anima a peggiorare la sensazione di essere un elemento qualsiasi tra milioni di miliardi di possibilità, un insignificante granello di sabbia nel caos delle occasioni.
Il corpo non ha un io senza la consapevolezza di esistere, senza ciò che per comodità ho chiamato anima, perciò se alla nascita manca questa coscienza, ma c'è solo percezione, quella che è nata a gennaio mentre nevicava, con gli occhi aperti, dopo due giorni di sofferenza di una giovane donna bellissima, non sono io, ma un corpo biologico nel quale solo in seguito un'anima vagante si è immersa, come si prende un treno per essere trasportati.
È per questo, forse, che ricordo benissimo quando ho cominciato ad essere io e nulla di ciò che è accaduto prima.
Tuttavia si attribuiscono alle creature appena nate e addirittura agli embrioni, elaborazioni di informazioni, non del mero corpo, ma di qualcosa d'altro, tanto che vengono sottolineati i condizionamenti, come marchi a fuoco, che derivano dal periodo precedente alla nascita.
Certo, il cervello: ma è forse credibile ritenere che un organo, per quanto specializzato e organizzato, possa elaborare se stesso?
Neppure col modello cibernetico si può risolvere il paradosso: le macchine funzionano perché c'è chi ha fornito loro il sistema per trattare le informazioni, qualcosa o qualcuno all'esterno che ne ha ideato il progetto e condotto la realizzazione.
Se così fosse esisterebbe un mio creatore, come di chiunque altro, ed io sarei frutto della sua immaginazione in tutti i particolari, in ogni attimo della mia vita, perciò non esiterei come reale ma come proiezione anche ora, mentre la mente che mi ha pensata e mi pensa mi sta immaginando mentre scrivo e la penso, come in un gioco di specchi.
Se smettesse di immaginarmi io non esisterei più, perciò essa pensa di farmi pensare che mi convenga comportarmi in modo da attirare continuamente la sua attenzione per non essere dimenticata e scomparire.
Così come immagina me, concepisce lo spazio e il tempo in cui mi muovo, gli altri individui immaginati che incontro in occasioni ideate, le reazioni di ciascuno, le interazioni, i cambiamenti che ogni contatto produce.
Un'immaginazione sfrenata, che talvolta chiamiamo Dio, che sta al principio di tutto, tale da darci l'illusione di realtà di vite imprevedibili condotte nella distorsione di credere che esistano regole, sostanze, verità, ordini certi.
L'immaginazione è l'inizio, il principio primo, immagina anche se stessa e di essa noi siamo i prodotti, perfettamente immaginanti a nostra volta, come dettagli di una spirale di frattali.
Io immagino di essere nata, a gennaio, con gli occhi spalancati e di aver gridato.
Qualsiasi affermazione che farò a questo proposito, come quelle scritte finora, sarà assolutamente vera e totalmente falsa, come lo sono tutte quelle di ogni essere che si ritenga vivente ed affermi qualcosa di sé o del mondo.
Vera o falsa a seconda che l'immaginazione, che si e ci crea, immagini che lo siano o meno.
Comunque sia andata sono nata, però non lo ricordo.
Ora sono qui, in una situazione sulla cui veridicità non mi sbilancio, in grado di definire solidi e liquidi, di distinguere suoni, di vedere oggetti e colori, di toccare, di mangiare, di sentire disgusto o piacere, di pensare e scrivere, di supporre di esistere all'interno di una rete di significati che mi rassicura credere condivisi pur nella certezza che non lo siano affatto, dal momento che le mie percezioni possono essere interpretate in modo diverso da quelle di ciascun altro essere vivente col quale ho in comune unicamente le convenzioni che le nominano.
Quando ero bambina non mi sono mai accorta di vedere doppio e sfumato: era la mia esperienza e la vivevo con la serena accettazione di chi la ritiene esatta, finché qualcuno non ha ritenuto doveroso adeguare la mia vista, interpretata come difettosa, a quella considerata corretta sul piano fisiologico senza che sia stato possibile - e non lo sarebbe neppure ora, né lo sarà mai- verificarne la corrispondenza con le diverse realtà mentali, e ancora di più con quelle spirituali, dei diversi io assunti a riferimento.
Sono state date ai miei occhi identiche capacità di percezione visiva di ciò che avrei comunque interpretato in modo originale, e soprattutto non confrontabile con le interpretazioni altrettanto originali delle percezioni di chiunque altro.
Nelle infinite possibilità di credere ciò che si vuole senza che nessuno possa confutare le nostre affermazioni con la presunzione di avere ragione, io dichiaro di essere nata e di non volerlo ricordare, tale fu lo sgomento che mi fece gridare.
Dedico il mio grido a tutte le occasioni in cui mi sono detta “lascia perdere” ed ho messo lo spirito sotto vuoto, aspirandogli l’aria.
Circostanziamo pure giorno, mese, anno e modo della mia nascita, ma a me e a me sola spetta il diritto di affermare ciò che il mio grido rappresentava nel momento in cui ho accolto la vita, perché conosco, molto bene, cosa significa avere l’anima immersa nella formalina, priva delle parole che le sono state sottratte.
Allora io non le possedevo, ma il terrore e il dolore erano identici, muti per naturale incompletezza come per scelta.
Tra tutti i pensieri che possono attraversare la mente in certi attimi di autentica angoscia così determinanti, quello al quale non mi sono mai rassegnata, neppure mentre il cordone ombelicale ancora pulsava, è stato quello che mi attendesse un percorso di immensa solitudine, una prospettiva di anni lunghi come millenni che mi avrebbero consumata nel vano desiderio di trovare la certezza di un accordo sui termini della comunicazione che avrei tentato con altri, i quali avrebbero tentato, con identico scarso successo, di fare la stessa cosa con me.
Si grida, perché tutto il benessere che avvolgeva nella culla ovattata del rifugio amniotico, la sensazione di essere fusi con un altro essere e di nutrirsi alla medesima fonte, viene inesorabilmente interrotta e perduta per sempre.
La donna, se diventa madre, ha qualche speranza di ripetere un’esperienza simile durante la gravidanza, benché il ruolo di involucro favorisca piuttosto un senso di onnipotenza che rinvigorisce la solitudine e dilania in modo più consapevole al momento del parto, reiterando la prima amputazione nella madre e originandone un’altra nel nuovo nato, che accoglie la propria vita con lo stesso antico sgomento.
Per un puro atto d’egoismo, originato dal desiderio di provare ancora perfetta fusione, si reca il dolore dal quale non si è mai guarite all’essere che si dice di amare maggiormente.
Per l’uomo questa solitudine disperata trova illusorio rifugio principalmente nel sesso, o nella dedizione totale a un progetto di vita di cui si nutrirà e nel quale si avvilupperà come nella vitale membrana materna.
Solitudine talvolta splendida, ma incurabile, alla quale ci si può abbandonare con atto di suprema dedizione, amando la vita, o contro la quale si può combattere una coraggiosa quanto inutile guerra, fino alla resa o fino alla morte, amando ugualmente la vita.
Qualunque soluzione alternativa che miri a mantenere uno stato di tiepida accettazione e moderato malessere, non ha nulla a che fare con lo spirito in grado di dare senso alla propria storia, che esige di essere estrema, o altrimenti diviene inconsistente.
Quel grido, di sgomento, di terrore, di dolore e di rifiuto, da tutti considerato il primo entusiasmante respiro, è origine anche del primo insopportabile fraintendimento, tutti pronti come siamo a proiettare le verità, che sono solo nostre e che ci contengono, su altri che ne verranno sopraffatti, tanto più in modo insanabile quanto meno avranno, come accade a un neonato, gli strumenti per ribattere.
Si nasce ed il nostro primo atto viene frainteso, salutato come segnale di vita, senza accorgersi che si tratta di un pianto lancinante di fronte alla morte delle nostre primarie certezze.
Affrontando così vulnerabile l’incerto, con l’unico mezzo di cui disponevo - il grido- ho affermato di esistere.
Era gennaio, nevicava.

3- La rinascita
Eccoli, sono tornati.
Li attendevo e finalmente li vedo di nuovo. Sono veli sottili, così leggeri ed impalpabili da poterli solo intuire attraverso l'aria perfettamente tersa. Sono silenziose pennellate d'acquerello, tenui movimenti di luci opache e radenti.
Godono del favore dei cieli autunnali, al mattino, dopo la pioggia, o dei bagliori di primavere precoci incastonati nel cuore dell'inverno.
Li precede un presentimento vago che per giorni mi lascia immobile, paralizzata da pretesti al condizionale, incapace di formulare inutili definizioni.
Tutta la pelle viene carezzata da un'aura quasi impercettibile, che tuttavia si insinua in un corso morbido di palpiti interni.
Non posso concentrarmi su nulla, solo restare in sensibile attesa del visionario abbandono del quale avverto l'imminente onda.
A volte li chiamo, smanio nel desiderio di esserne rapita nascondendomi in uno speranzoso dormiveglia, sorrido a me stessa, mi scindo dal corpo e mi guardo, quasi con rancore nel sentirmi limitata, quasi con amore nell'avvertirmi eletta e predestinata ad assistere al prodigio di questo grande, inafferrabile respiro.
Quando giungono posso vederli in ogni elemento: nell'acqua che scorre, nelle volute di fumo, nelle venature del legno, negli sfioramenti con la punta delle dita di superfici che l'abitudine ha sottratto alla mia coscienza.
Ciò che mi circonda diventa nuovo e inaspettato, ne colgo i dettagli, ne subisco il fascino. Luci ed ombre, piccole curve, morbide geometrie, inclinazioni, spessori, vicinanze di oggetti acquistano significati inattesi, svincolati dalle logiche secondo le quali sono stati creati e disposti, assegnando invece al caso il ruolo di protagonista.
Allora vedo i fili che si intrecciano ad attribuire sostanza a ciò che fino a poco prima sembrava costruita apparenza, si sgretolano vincoli e certezze, a nulla vale cercare nella razionalità alibi per rifiutare questa realtà che si dice distorta pur essendo la sola reale.
Un tempo non era così.
Temevo la venuta di quelli che sentivo oscuri fantasmi.
Avevo bisogno di angolazioni precise e di archivi ordinati. Non c'erano aure, aliti di brezza, morbide danze, ma fiammate, squarci di luce violenta, contraddizioni che si agitavano in un frenetico sabba del quale sapevo d'essere la vittima, povero essere di viscere scure da strappare come sacrificio a divinità spietate.
Venivo frustata, graffiata, lapidata con pietre pesanti se solo osavo alzare lo sguardo a rivendicare le mie piccole, soggettive, fragili verità.
Non c'era attesa, ma terrore; non desideravo abbandono, ma invocavo di non perdere la forza, banalmente umana, che mi sosteneva a non cedere.
Venivo divorata da un pianto interiore di cui avvertivo i morsi: lo sentivo masticare brandelli di me e scavare, sbranandomi, gallerie che restavano vuote e risuonavano cupe di echi spaventosi.
Mi sentivo nuda e ferita, battuta da piogge pungenti come spine, conficcata in terre desolate nelle quali non volevo affondare. C'erano radici prive di linfa e rami secchi da cui la vita defluiva senza possibilità di arrestarla.
Io c'ero, subivo e allo stesso tempo guardavo impotente ciò che mi stavano facendo gli spettri delle mie negazioni.
E maschere, sempre: di argilla, di legno, di metallo per le battaglie più dure, si frantumavano, si sfasciavano in schegge, vi si incidevano profonde fratture, ma ce n'erano altre pronte per non mostrare mai un volto che io stessa non potevo più identificare.
Stavo bene, ero perfetta sul palcoscenico del grande teatro, bastava non guardare l'angoscia negli occhi, la curiosità disperata che vi era riflessa, la muta richiesta di aiuto che baluginava ad ogni incontro che speravo speciale.
Stavo bene, indossavo con stile i costumi di scena, attrice di consumato talento, saggia e misurata. Le piccole sbavature erano intese come vezzi di interpretazione ma già, per taluni, parevano inaccettabili deragliamenti.
Ma io odiavo i miei ruoli, mi corrodevano come ruggine.
Le tempeste e le lunghe notti di gelo boreale le affrontavo sola e coperta di stracci, violata nella carne viva, procedendo sulle braci, nel fango, nei guadi melmosi, in aride steppe.
Quale aurora mi abbia spinta ad uscirne non lo so.
Ho camminato a lungo sul ciglio oltre il quale c'è l'abisso, la consegna irreversibile all'inferno, la perdita, il dolore distillato e sublimato. 
Non ho fatto il passo fatale, ho solo provato la vertigine della caduta, ho resistito all'attrazione magnetica del vuoto.
Poi ho visto riflessi di luce, compreso i colori, desiderato volare in alto, molto in alto, così lontana da non sentire altro che rarefatto silenzio.
E' così che sono tornata viva e diventata pazza.

Tempo fa ho pubblicato su questo blog solo l'ultima parte di questo scritto, che nella sua versione completa è piuttosto vecchio. 
Risale al periodo in cui, per uscire dalla depressione seguita alla morte di mia sorella, mi sono sottoposta ad alcune sedute - otto, per la precisione- di Rebirthing, una tecnica talvolta usata anche in analisi, psicologicamente durissima. In pratica, attraverso l'iperventilazione, si entra in uno stato di rallentamento delle funzioni corporee, ma di sblocco di nodi emotivi, tanto da poter rivivere il momento della nascita (per maggiori informazioni http://www.ilrebirthing.it/rebirthing.html). 
Per quanto venga presentata come una tecnica quasi piacevole, si tratta invece di un'esperienza terrificante, che lascia sfiniti per giorni, porta a fare sogni stranissimi, ma aiuta a sciogliere nodi profondi. 
Magari non è vero, ma a me ha fatto questo effetto, tant'è che sono guarita dal male che mi affliggeva e ne sono uscita pure più resiliente. 
Questi scritti sono sogni, vaneggiamenti e sensazioni frutto del Rebirthing.
Accade però che alcune persone, tra le quali mi includo, ci mettono anni a socializzare l'aver attraversato certi stati d'animo, come se ne avessero vergogna.
Beh, a me è passata.






domenica 14 febbraio 2016

Il baratto


Cominciò tutto per caso, senza intenzione.
Mi piacerebbe ora, a posteriori, poter trovare nella mia vita qualche giustificazione, di quelle così care alla letteratura – non potevo più dormire la notte…sentivo l’inutilità delle mie giornate -, ma il confine tra finzione e verità é ormai diventato così labile per me, da indurmi a conservare quantomeno l’illusione di essere sincero.
La mia vita andava bene, avevo tutto quello che può garantire la tranquillità : sufficiente denaro, qualche amicizia e molte conoscenze, un buon lavoro, donne che mi tenevano compagnia senza chiedere in cambio né soldi né impegno, prestanza fisica e tempo da spendere.
Volevo cambiare automobile, perciò mi procurai un paio di giornaletti di annunci, tra quelli che le edicole distribuiscono gratuitamente, per mettere in vendita a privati la mia auto usata.
Sfogliando le pagine del giornale, cominciai a leggere tutte le inserzioni, con quella noia che spinge a incuriosirsi dei dettagli, anche se non ci interessano affatto.
Nella sezione dedicata agli scambi lessi allora un annuncio che in un primo momento mi divertì molto. Recitava circa così : scambio giacca femminile in pelle verde, mai usata, taglia 42/44, con phon professionale, purché funzionante e omologato a norme di sicurezza. Contattare serali… seguiva numero di cellulare.
La faccenda mi apparve piuttosto surreale. Che genere di scambio era una giacca di pelle verde con un phon professionale? Quante persone in città, in possesso di un phon professionale, sarebbero state disposte a barattarlo con una giacca di pelle verde di taglia femminile?
Di lì a poco uscii, ma il pensiero di quell’inserzione continuò a tornarmi in mente per tutto il giorno, in modo ossessivo quanto assurdo. Cominciai ad immaginare la proprietaria di quella giacca verde, con la certezza che si trattasse di una donna, abbandonandomi a seguire i suoi ipotetici percorsi mentali, quelli che le avevano fatto apparire plausibile il tentativo di realizzare uno scambio di quel genere. Non riuscii a concentrarmi su nulla e tutto questo alimentò un insolito nervosismo verso me stesso, vittima di una fissazione così stupida e inconcludente.
Camminando per strada, cercai con l’immaginazione il volto di colei che aveva scritto l’annuncio tra quelli reali in mezzo alla folla, attribuendo il possesso di una giacca di pelle verde alle labbra, allo sguardo o al passo di ogni donna che incrociavo.
Tornai a casa e ripresi in mano il giornale: avrei potuto telefonare, se non altro per avere conferma dell’idea che mi ero fatto della sconosciuta inserzionista. Rileggendo il trafiletto mi sentii un vero idiota. Per qualche ora mi fu sufficiente a dimenticarmene, ma quando presi sonno, l’inconscio mi riportò verso la stessa ossessione con la logica simbolica e sovvertita dei sogni .
La mattina successiva chiamai, da una cabina telefonica perché il cellulare non registrasse il numero. Mi rispose, come prevedevo, la voce di una donna giovane bruscamente svegliata. Riattaccai e mi recai in un grande negozio di elettrodomestici. Dovevo acquistare un phon professionale, per poterlo scambiare con la giacca di pelle verde, unico pretesto possibile per conoscere il volto dell’inserzionista dalla voce sonnolenta.
La prospettiva di un incontro alleggerì la giornata, offuscata solo dal vago timore che fosse già avvenuto lo scambio con qualche altra persona, e che pertanto non solo non avrei conosciuto la donna dell’annuncio, ma mi sarei ritrovato in casa anche un costoso phon professionale, del tutto inutile per me. Sono calvo, infatti, da almeno dieci anni.
Alla sera chiamai, con una certa titubanza. La voce mi apparve più distesa, quasi allegra.
- Chiamo per l’annuncio. Mi interesserebbe vedere la giacca, poiché possiedo un phon che non mi serve…- normalmente risultavo più disinvolto.
- Bene! Le è l’unico ad aver chiamato sa?- rispose la ragazza con entusiasmo – Pensa che potremmo incontrarci in questi giorni? Vuole che venga io da lei, o preferisce che ci incontriamo da qualche parte?-
Sembrava piuttosto pratica di queste faccende.
- Come preferisce lei… se mi dice dove abita potrei raggiungerla io…-
La mia proposta parve spiazzarla, ma subito la ragazza riprese in mano la situazione e fissò un appuntamento.
- Se le va bene ci possiamo vedere domani all’ora di pranzo davanti al monumento a Cavour, nella piazzetta in centro. Facciamo verso le 12,30? –
Avrei voluto replicare, l’ora e il luogo erano scomodissimi per me, che lavoro fuori città, ma non volevo rimandare l’incontro. Avrei trovato il modo di liberarmi.
- Va benissimo – mentii – Come potrò riconoscerla? –
Anche questa volta dovevo aver detto qualcosa di sbagliato. La ragazza rimase in silenzio per qualche secondo, poi chiuse con tono freddo la telefonata.
- Avrò una sciarpa azzurra al collo… ma non credo che a quell’ora ci saranno molte persone sotto il monumento a Cavour, specie con una giacca di pelle verde avvolta nel cellophane tra le braccia…- il tono di scherno non mi irritò, la freddezza sì – A domani, allora! –
- A domani – la mia voce sfumò nel silenzio dell’assenza di linea. Aveva riattaccato.
Il giorno seguente mi presentai all’appuntamento curioso come un ragazzino. Ero in anticipo e portavo in un sacchetto il phon con tutti gli accessori. Mi ero preoccupato di toglierlo dall’imballo e di conferirgli l’aspetto di un oggetto usato, con scarso successo. Era palesemente nuovo.
Perché mi stavo comportando in modo così stupido? Quale morbosità mi aveva spinto a cercare di conoscere una donna della quale sapevo solo che possedeva una giacca di pelle verde e desiderava un phon professionale? Non cercavo una conquista, non avevo bisogno di avventure con sconosciute.
In quel momento la faccenda mi si mostrò in tutta la sua assurdità e pensai seriamente di andarmene, quando vidi una ragazza che veniva verso di me, con un sacchetto di cellophane tra le braccia. Era lei, con la sua giacca di pelle verde.
Facemmo una breve presentazione, poi la ragazza si accomodò su una panchina invitandomi con lo sguardo a sedere accanto a lei.
Mi guardava con un certo interesse, malcelato e indiscreto. Non potevo darle torto. Certamente stava pensando a cosa mi potesse servire un phon professionale. Non che una giacca da donna di pelle verde potesse essermi più utile, tuttavia.
Non posso dire se la ragazza fosse come l’avevo immaginata: era un tipo piuttosto comune, graziosa ma per nulla appariscente. In altre circostanze non l’avrei neppure guardata, ma allora concentrai tutta la mia attenzione su di lei, sui suoi occhi, sui capelli castani, lisci e spettinati, portati corti intorno al viso ovale ( a che le serviva un phon professionale?).
Fu lei a rompere il silenzio che aveva accompagnato il reciproco studio. Estrasse dal cellophane la giacca verde per mostrarmela.
- Questa è la giacca. L’ho indossata solo un paio di volte, sai? – notai subito che usava un modo piuttosto confidenziale, come se le fosse stato abituale – Non è per nulla rovinata! –
Simulai un interesse per quel capo, invero piuttosto brutto. Non feci neppure in tempo a replicare qualcosa, che la ragazza prese a raccontare.
- Io facevo l’attrice, fino a due anni fa. Non ero una professionista, lo facevo solo per hobby. Studio, all’Università, Scienze Politiche, sono al terzo anno ma non ho dato tutti gli esami perché nel frattempo lavoro anche… Beh, facevo l’attrice in una compagnia amatoriale che si esibisce nei teatri della provincia. Il mio fidanzato mi ha regalato questa giacca. Mi piaceva tanto! Lui recitava insieme a me ed era davvero bravo; insieme eravamo molto affiatati sul palcoscenico, ci conoscevamo così bene che era facile sintonizzarci sempre coi tempi e le battute. E’ importante: in coppia funzionavamo benissimo. Io credevo che questo fosse la nostra forza e che il rapporto tra noi fosse privilegiato, sia sul palco, sia nella vita. Due anni fa stavamo lavorando ad una rappresentazione di cui eravamo protagonisti insieme, ma io mi sono ammalata. Cominciò con una febbre lieve ma continua, che mi faceva sentire sempre stanca. Avevo capogiri e momenti di vuoto di memoria, così mi risultava sempre più difficile recitare. Non riuscivo più a fare neppure le altre cose: figurati studiare! Un po’ alla volta la mia situazione peggiorò: stavo bene solo a letto, in un costante dormiveglia. Se non lavoravo però non avevo denaro e per un certo periodo mi fu possibile andare avanti perché avevo qualcosa da parte, ma col passare del tempo le cose andarono sempre peggio, finché non fui costretta ad andare in ospedale. Era un’infezione interna, una malattia poco frequente, che si cura con gli antibiotici. Restai in ospedale tre mesi. Nei primi tempi il mio fidanzato mi stava molto vicino, ma a poco a poco notai che si stava distaccando: usciva frequentemente, con la scusa del teatro o del lavoro, ma io sapevo che non era vero. Faceva il barista in un pub, lavorava di notte e normalmente tornava a casa alla mattina e dormiva fino a metà pomeriggio, poi andava alle prove e al lavoro. Sempre così, tutti i giorni fino ad allora. Poi cominciò a fare orari strani, tornava a casa raramente. In teatro ero stata sostituita da un’altra ragazza, ma io pensavo che non sarebbe mai stata brava come me perché con lui non aveva lo stesso affiatamento. Quando fui ricoverata in ospedale, lui non venne quasi più a trovarmi, finché non scomparve del tutto, senza dirmi neppure una parola. Provai a chiamarlo tante volte, ma non mi rispose mai. Ero così malata e così rassegnata che non mi fu difficile smettere di pensare a lui, ma quando uscii dall’ospedale lo andai a cercare. Abitavamo insieme, in un appartamento che avevo trovato io. A casa non c’erano più tracce di lui, aveva portato via tutto. Andai a teatro, allora: lo vidi uscire con quell’altra, quella che mi aveva sostituita. Lei portava una giacca di pelle verde identica alla mia.
Da allora non ho mai più messo la giacca ed ora non sopporto più di vederla, sono cambiate troppe cose. Non recito più, lavoro un po’ in casa e studio, non vedo nessuno e non mi fido più di nessuno. Mi arrangio. Ora faccio la parrucchiera a domicilio: si guadagna abbastanza bene e sono diventata brava…ma per ora degli uomini non ne voglio più sapere. –
Non le avevo chiesto nulla, aveva fatto tutto lei. Mi fece una grande tenerezza, la sentii ferita e disillusa e compresi il suo bisogno di raccontare, ma non ero sicuro che volesse una riposta. Pareva piuttosto che avesse solo bisogno di sfogarsi.
Mi venne istintivo proporle di pranzare insieme. Una semplice pizza, nulla di impegnativo.
Accettò, ma senza entusiasmo. Dopo aver terminato il racconto della sua storia, aveva assunto un atteggiamento di attesa, come si se si fosse aspettata qualcosa da me, e non parole di circostanza.
Prima di lasciare la piazzetta, le mostrai il phon. Lo guardò con sufficienza e disse che andava bene, valeva lo scambio. Era evidente che quel phon sofisticato non le bastava.
Istintivamente pensai che sarebbe stato opportuno giustificarlo e fu in quel momento che improvvisai una storia, quasi a ricambiare la confidenza che mi aveva accordato.
Avrei potuto raccontare la verità, magari porre le basi per un’amicizia, ma mentii, in modo insensato.
- Il phon è nuovo – iniziai, mentre camminavamo verso la pizzeria – Apparteneva a mia moglie –
Ovviamente non avevo mai avuto una moglie, ma avvertivo la necessità di mostrarmi solidale con la ragazza e con la sua storia, offrendole l’occasione di sentirsi compresa senza dirle espressamente nulla che risultasse confortante.
- Mia moglie è una donna che tiene molto alle sua cose…non eravamo sposati da molto, ma io credevo di conoscerla a fondo. Si mostrava sempre affettuosa e piena di attenzioni verso di me. Lavorava solo mezza giornata in uno studio dentistico – ma che idiozie stavo raccontando? Uno studio dentistico : che idea!
- Dopo qualche mese di matrimonio un giorno sono rientrato a casa e l’ho trovata con le valigie pronte. Andava a vivere col mio migliore amico, il mio commercialista – Certo! Una storia scontata, banalissima : la moglie se ne va col commercialista., che è anche un amico di famiglia. Non avevo avuto molta fantasia. Dovevo rendere la storia più interessante.
- Mi disse che aspettava un bambino, ma che non era mio. Forse non era neppure del commercialista, né del dentista presso il quale lavorava, ma non aveva importanza. Il bambino era suo e lei riteneva che il mio amico sarebbe stato un padre più affidabile – una storia che non stava in piedi, ma la ragazza sembrò molto colpita. Pensai di insistere.
- Anch’io sono stato ferito, come vedi. Ora lei ha un bambino di pochi mesi, ma a quanto mi dicono non ha modificato le sue abitudini. Non voglio ascoltare ciò che si racconta di lei: io l’ho amata e preferisco pensare che sia quella che immaginavo. Mi sto liberando di tutto ciò che le apparteneva, però. Non è mai tornata a prendere le sue cose, neppure dopo la separazione. Ora frequento una brava ragazza, ma prima di impegnarmi voglio essere sicuro di conoscerla sul serio – ottimo! Non ero solo, mi ero costruito una via di fuga da quella ragazza. Ero ferito, ma non del tutto scoraggiato, ne uscivo positivo: non macho, non troppo debole, non avvelenato verso le donne. Un signore, un vero signore. Mi piacevo.
Quando smisi di raccontare “la mia storia”, la ragazza aveva cambiato sensibilmente l’atteggiamento verso di me. Pareva soddisfatta.
Continuammo a parlare al tavolo del ristorante, aggiungendo dettagli alle vicende che avevamo raccontato. Lei parlava con naturalezza, descriveva il suo ex-ragazzo, si entusiasmava narrando del teatro, si intristiva quando ricordava la malattia.
Io cercavo di restare al passo, ormai entrato nella parte del marito, tradito da una grandissima puttana, che tuttavia non odia le donne. Fu piacevole, molto piacevole.
Ci salutammo dopo pranzo, ma quando le proposi di rivederci mi freddò con un secco non è il caso. Pensai che la sua ferita sanguinasse più della mia.
Quale “mia ferita” ? Cosa stavo facendo? Mi ero inventato tutto, io non ero mai stato tradito da una moglie che non avevo mai avuto.
Ci scambiammo gli oggetti e ci separammo, riprendendo le nostre vite che casualmente si erano incrociate solo per poche ore. Tenevo appoggiata al braccio la giacca di pelle verde e in bocca il sapore di un’esperienza singolare. Era un buon sapore.
Nei giorni che seguirono mi capitò di pensare spesso alla ragazza e alla sua triste vicenda. Nessuna delle donne che frequentavo aveva vissuto qualcosa di simile, o se era accaduto, nessuna l’aveva mai raccontato. Non era la storia in sé che mi aveva colpito, quanto piuttosto il fatto che la ragazza l’avesse voluta condividere con me: ero uno sconosciuto. Mi sentii privilegiato. Non avevo sensi di colpa riguardo alla mia storia inventata, poiché era evidente che aveva messo la ragazza a suo agio. Era una menzogna, ma non aveva fatto male a nessuno.
La giacca di pelle verde era appesa nell’armadio, avvolta nel cellophane.



La settimana successiva presi all’edicola un nuovo numero del giornaletto di annunci. La mia auto era stata messa in vendita, volevo verificare l’inserzione.
Mosso da improvvisa frenesia, iniziai invece a scorrere gli annunci di scambio.
Scambio un centinaio di tegole antiche con chitarra acustica da studio. Ore pasti…seguiva numero fisso, della rete urbana.
Tegole antiche? Che valore potevano avere? Chiamai un amico che si occupava di oggetti d’antiquariato, il quale mi disse che le tegole potevano anche avere un pregio e che in ogni caso c’era chi le cercava: collezionisti, architetti, privati che ristrutturano vecchi casali.
Perché scambiarle con una chitarra acustica - da studio, tra l’altro?
La curiosità si impossessò nuovamente di me. Dovevo sapere che genere di persona potesse essere colui o colei che aveva immaginato un simile baratto.
Cercai di porre qualche resistenza verso questa nuova insensatezza, ma non mi riuscì. La mia fantasia ricominciò immaginare volti, logiche, vicende che potessero corrispondere ad un possessore di tegole antiche che desidera una chitarra acustica da studio.
In quei giorni il lavoro mi impegnò molto, ma non riuscì mai a distogliermi dal pensiero di un nuovo baratto. Anche con gli amici mi comportavo in modo assente, ascoltavo senza alcuna attenzione ciò che mi dicevano, come se ci fosse qualcosa di troppo scontato in tutto ciò che avevamo sempre condiviso. Stavo progressivamente prendendo le distanze dalla abituale quotidianità, rifugiandomi sempre più spesso in articolate costruzioni mentali che riguardavano un illustre sconosciuto.
Quando la mia curiosità raggiunse il culmine, telefonai all’inserzionista.
Mi rispose una voce maschile, roca, che strascicava le parole con una lentezza esasperante. Mi pentii quasi subito di aver telefonato, ma ormai ero in gioco.
- Ho letto l’annuncio sul giornalino questa volta mi sentii più sicuro Sarei interessato a vedere le sue tegole –
- Lei ha una chitarra classica da studio? – mi rispose l’altro, pragmatico.
La domanda mi colse impreparato: io non avevo alcuna chitarra. Non avevo pensato al termine di scambio. Non restava che mentire.
- Certamente, ma è necessario che lei la veda. Apparteneva a… - a chi apparteneva la chitarra che non possedevo? - … a mio fratello. Io non sono molto pratico. Sarebbe opportuno che ci incontrassimo. Se lei è libero potrei passare durante il fine settimana, immagino che lei non abbia modo di muoversi con tutte le tegole… - geniale! Sicuro, logico, disinvolto.
- Se viene sabato pomeriggio le faccio vedere le tegole – rispose l’uomo Le tengo in garage. L’aspetto dopo pranzo, così le offro anche un caffè. Porti la chitarra. Ha anche la custodia?-
- Sabato va bene. Credo che abbia anche la custodia, ma devo verificare che sia tutta in ordine – era una stupidaggine, ma mi serviva prendere tempo.
- Va bene comunque, le do l’indirizzo…-
Avevo un nuovo appuntamento, mi serviva urgentemente una chitarra, ma questa volta avrei cercato qualcosa di usato.
Trovai quello che cercavo in un negozio di strumenti musicali che trattava anche oggetti di seconda mano. Era una bella chitarra, molto in ordine, con corde nuove e la cassa di un legno biondo. Non ne capivo nulla, ma il commesso del negozio fu molto gentile e mi fornì informazioni preziose. La chitarra aveva anche la custodia, una busta sagomata in similpelle marrone. Mi raccomandai che fosse una chitarra da studio. Aveva il manico abbastanza largo.
Sabato pomeriggio mi recai all’appuntamento.
All’indirizzo mi aspettava un vecchio, piuttosto gonfio, che camminava inclinato da un lato con le braccia abbandonate pesantemente lungo i fianchi. Strascicava il passo e le parole e puzzava di vino. Era evidente che beveva troppo. Mi porse una mano larga e molle, che subito fece ricadere sulla coscia.
- Vuole vedere subito le tegole o ci facciamo un caffè? – biascicò.
Mi parve gentile optare per il caffè. La cucina della casa testimoniava l’assenza di una mano femminile, ma la mia frettolosa considerazione fu smentita dalla comparsa di una donna altrettanto gonfia, storta e biascicante. Bevevano in compagnia, i miei ospiti.
Mi misero davanti una tazzina di liquido fumante, che proposero di correggere con un dito di grappa. Rifiutai, ma la coppia non disdegnò di versare un buon sorso di distillato nelle rispettive tazze. Contenevano più grappa che caffè.
Mentre sorseggiava, il vecchio iniziò a raccontare, come se seguisse un copione che gli diceva che era il momento del suo monologo.
- Perché vede, quando c’era la guerra e noi eravamo sfollati in campagna – parlava come se rispondesse a domande – si raccoglieva un po’ di tutto, così magari si rimediava qualcosa da mangiare… -la moglie annuiva, con lo sguardo che fissava un punto del muro. L’uomo procedeva a frammenti.- Noi eravamo ragazzini…era anche un gioco, tutta una ruberia, ma non ci sembrava di rubare…Perché noi si aveva fame e quando si rompevano le scarpe, non è che si buttavano, ma si cercava di metterci delle pezze per passarle ai più piccoli… perché si usavano anche i vecchi copertoni delle ruote, che anche quelli servivano per scambiare con qualche uovo, o qualche sacchetto di farina…Perché si mangiavano anche le rane dei fossi, ma non ci piacevano mica tanto e non riempivano la pancia. Le donne le friggevano nell’olio che era sempre fritto e rifritto, così nero che sembrava quello dei motori… - ridevano entrambi, con amarezza sguaiata – Perché magari a qualcuno potevano servire dei mattoni e quello aveva delle galline…noi eravamo sei fratelli, ma il più grande era al fronte, che poi è tornato senza un occhio e la fidanzata non lo voleva più… quando arrivarono gli Americani le ragazze non si ricordavano dei fidanzati che erano in guerra e facevano le civette… mica glielo dicevano, agli Americani, che mangiavano rane e che avevano le scarpe con la suola fatta con la gomma delle ruote! – rideva, versando grappa sul fondo della tazzina. La moglie continuava ad annuire, persa sul muro. – Perché dopo la guerra si aveva l’abitudine di conservare tutto, che non si sa mai… con la paura della miseria… è ben brutta la miseria, sa? Lei lo sa cos’è la miseria? No di certo: lei è giovane. Ha studiato, vero?- domandava, ma senza aspettare risposte: le aveva già – Perché durante la guerra andavamo anche a scuola, perché chi sfollava in campagna era più al sicuro… avevamo fame, ma a scuola ci si andava. Perché si stava insieme nella stessa classe i grandi e i piccoli, che non c’era mica da fare tanto gli schizzinosi con la maestra… eravamo trenta, quaranta bambini, di tutte le età. C’era anche questa qua – precisò, indicando la moglie – Piangeva sempre e rubava tutto quello che poteva, ma io le volevo bene anche quando era piccola. Era bella, sa? Adesso è grassa e vecchia, ma da ragazza me la invidiavano tutti. Lei ha voluto me… perché siamo stati insieme due anni, che le città erano bombardate e noi cercavamo le rane nei fossi e tutto quello che si poteva scambiare. Ma lei ha voluto me, perché c’era anche il figlio del farmacista che la voleva, ma io le volevo più bene e lei mi ha preso… -
- Bell’affare… - riemerse la moglie, sarcastica.
- Ma stai zitta! Che il farmacista non lo sapeva che diventavi così grassa e che facevi da mangiare da schifo! il vecchio stava cominciando ad alterarsi in modo pericoloso.
Cercai di interrompere quel flusso di ricordi, che aveva poco a che fare con le tegole. Presi la chitarra, togliendola dalla custodia. Iniziai a inventare.
- E’ la chitarra di mio fratello, ma a lui non serve più. Ora sta in prigione – santo cielo! Perché l’avevo detto? Mi ero cacciato in una storia odiosa, ma in qualche modo volevo rispondere allo sproloquio drammatico di quell’uomo con altrettanta forza.
- Ha ucciso un uomo durante una rissa. Aveva offeso la sua ragazza, perciò erano venuti alle mani. Mio fratello gli ha dato un pugno che l’ha spedito a terra. L’altro ha battuto la testa contro uno spigolo ed è morto sul colpo – era la scena di un film, il vecchio e la moglie non potevano averlo visto – Si è preso sei anni, con la preterintenzione, perché aveva qualche piccolo precedente per faccende di droga. Deve scontarli tutti, uscirà tra due anni. Era bravissimo con la chitarra, questa la suonava da ragazzino. E’ stato lui a dirmi di venderla, o scambiarla. Suonava con un gruppo e faceva molte registrazioni con artisti famosi - non reputai necessario elencare gli artisti coi quali aveva suonato il mio fratello immaginario – E’ un bravo ragazzo, ma ha un carattere debole. Ha avuto la sfortuna di frequentare compagnie negative, ma non è mai stato un violento. Pensate che la ragazza, dopo che lui è finito in galera per difenderla, l’ha lasciato e ora sta con un altro…- quel fratello era uno stereotipo disgustoso.
La coppia si era molto interessata alla vicenda ed entrambi esaminarono con grande attenzione la chitarra, come se tra le venature del suo legno si potesse leggere lo sfortunato destino di mio fratello. Mi sembrò di poter osare una domanda.
- Lei suona? chiesi all’uomo.
- Sì, suono abbastanza bene, ma mi occorre una chitarra col manico largo, perché le mie dita sono troppo gonfie…- accennò un paio di arpeggi Suono spesso in osteria. Perché avevo una vecchia chitarra che mi aveva regalato un Americano, che quando vennero a liberarci quei ragazzi videro che non avevamo niente… giocavamo con le palle fatte di stracci, a piedi nudi… lei ci va a trovare suo fratello in prigione? –
- Ci vado spesso, siamo molto legati, anche se siamo diversi. Io sono il maggiore e sono sempre stato più serio di lui, fin troppo studioso. Però ci siamo voluti bene sempre… - mi immalinconii con le mie stesse parole. Era davvero surreale.
Cercai di portare il discorso sulle tegole, per accelerare lo scambio: il rapporto con quell’uomo stava diventando troppo penoso e la nostalgia per il fratello scapestrato che non avevo mai avuto si faceva insopportabile.
Andammo in garage, solo il vecchio ed io. La moglie era rimasta seduta al tavolo della cucina, interessata al muro e smarrita nella grappa e nei ricordi.
Le tegole erano ammassate in un angolo. Finsi di apprezzarle e il vecchio mi spiegò che erano lì da più di quarant’anni e che prima erano appartenute alla casa di campagna nella quale si erano rifugiati durante la guerra.
- Perché i miei lavoravano in città, ma coi bombardamenti erano tornati con la famiglia al paese… che noi eravamo in sei fratelli e non c’era mica da dividere granché, con la miseria e i tedeschi… che mia sorella più piccola gliel’abbiamo strappata dalle mani a un porco di tedesco, che non si capiva mica cosa voleva farci con quella bimba senza le scarpe…-
Non ce la facevo più, troppo dolore. Quell’uomo era stato un bambino, aveva avuto paura e troppa fame per invecchiare serenamente.
Caricai le tegole nel bagagliaio dell’auto da solo: il vecchio non ce la faceva, barcollava e pareva sempre più storto.
Quando mi allontanai provai sollievo, ma non mi fu facile per giorni smettere di pensare a quel pomeriggio. Sognai varie volte ragazzini che giocavano alla guerra saltando qua e là attraverso i fossi. Vedevo in sogno un tedesco che allungava le mani su una bimbetta con una giacca verde, verde come una rana, che friggeva nell’olio scuro, in una casa bombardata col tetto senza tegole. Una donna rideva, rideva e puzzava di alcol.
Impilai con ordine le tegole in cantina.



Il lunedì ripresi a lavorare sollevato, ma mi capitava di frequente di pensare a quella puttana di mia moglie che stava col commercialista e a mio fratello chiuso in galera per aver difeso con troppa foga una donna che non l’aveva aspettato. Presi a riflettere sul perché di storie così sofferte. Era ovvio: rispondevo alle vicende drammatiche che mi avevano raccontato dando di me l’immagine di una persona abbastanza segnata dalla vita per poterle comprendere. Si veniva a creare così un’empatia con questi sconosciuti, come non avevo mai provato con amici che frequentavo da sempre. Le vicende che avevo inventato, corrispondevano alla tensione emotiva che si era creata in virtù dei racconti degli altri, di fronte ai quali non potevo restare indifferente, né tantomeno mostrarmi per ciò che ero sempre stato : un uomo fortunato.
Eppure mi sentivo completo come non ero stato mai prima, mi guardavo allo specchio pieno di compiacimento verso di me, che avevo superato brillantemente il dramma di una moglie puttana e di un fratello in prigione. Non era vero? Non storicamente.
Quando uscì il numero settimanale del giornale di inserzioni, non cercai neppure una giustificazione. Lessi subito la pagina degli scambi, colmo di aspettative.
Cerco volumi della serie “ I maestri della Pittura”, da scambiare con collezione di circa duemila cartoline con vedute di campanili. Ore pasti… seguivano un numero fisso e un numero di cellulare. I maestri della pittura dovevano interessare davvero al mio futuro interlocutore.
Prima di avventurarmi in un nuovo appuntamento, mi regalai un paio di pomeriggi tra i banchi dei libri usati, che sostavano tutto l’anno sotto le volte del mercato vecchio. Riuscii a trovare, ad un prezzo davvero modico, quasi tutta la collezione completa. Si trattava di venti volumi rilegati, di qualità discreta. Mancavano solo i volumi relativi a Manet e a Chagall, ma pensai che il fatto avrebbe conferito alla mia raccolta improvvisata un aspetto più vissuto.
Ero quasi certo che il collezionista di cartoline coi campanili fosse un anziano parroco, o un ragazzino saccente ipernutrito.
Rimasi alquanto deluso quando all’altro capo del telefono mi rispose una bimba, che subito andò a chiamare il papà.
- Salve – esordii gioviale – Ho letto che lei possiede molte cartoline da scambiare… Io ho in casa la raccolta che le interessa, salvo un paio di volumi… -- Potremmo parlarne – mi rispose un uomo allegramente – Non mi interessa la collezione completa, se mancano solo alcuni volumi posso cercarli io. Vuole che ci vediamo? Io sono libero solo nel tardo pomeriggio.-
- Potremmo vederci giovedì verso sera, se a lei va bene- proposi.
- Giovedì non posso, gioco a tennis, ma se le va bene venerdì sera…vengo io da lei o ci vediamo fuori?-
-Venerdì va bene, le lascio il mio indirizzo –
Quel nuovo appuntamento non mi attirava, ma la bizzarra collezione di cartoline coi campanili doveva avere una storia. Decisi di tentare. In ogni caso avevo già acquistato i volumi dei Maestri della Pittura.
Cosa spingeva qualcuno a collezionare vedute con campanili? Perché allora non cartoline con fiori, con animali selvaggi, con ponti? Tornai al mercato dei libri usati. Mi pareva di aver visto un banco che vendeva cartoline. Cercai un pretesto per portare il discorso col venditore sull’argomento che mi interessava, e questi mi confermò che esistevano i collezionisti di immagini più disparate. Non solo cartoline con fiori, ma addirittura solo quelle raffiguranti stelle alpine, o violette; animali? Anche solo uccelli, gatti ( anche solo gatti bianchi), tutte le razze di cani…; ponti? Certamente: ponti, torri, stadi…
Mi resi conto che il mondo è pieno di gente strana. Quante possibili collezioni si potrebbero fare? Perché si decide di collezionare cartoline con campanili piuttosto che tappi di bottiglia, calzascarpe o scatole di latta? E’ casuale o nasce da una fissazione maniacale per un dettaglio al quale si attribuisce un peculiare significato? Venerdì avrei trovato, forse, una risposta ad alcune domande.
L’uomo che mi aveva risposto al telefono acquistò allora un inatteso fascino. Mi pareva depositario di un segreto filosofico che non avevo mai abbastanza considerato.
Iniziai a immaginare le collezioni più disparate. Camminavo per le strade fissando ogni vetrina con il sentore di potervi vedere esposto un possibile oggetto che mi avrebbe indotto ad una raccolta. Se in casa scovavo due oggetti simili, si scatenava un desiderio compulsivo di possederne altri dello stesso genere. Già avvertivo il bisogno di album, vetrine, raccoglitori di ogni tipo.
Venerdì non arrivava mai. La mia curiosità era sul punto di farmi esplodere.
Non avevo pensato a quello che avrei potuto raccontare, preferivo improvvisare. Era il mio interlocutore, infatti, a suggerirmi una storia.
Avevo preparato tutto per l’incontro. Suonò il campanello e invitai l’inserzionista a salire. Non mi sfiorò neppure l’idea che potesse avere cattive intenzioni.
Un uomo giovane si presentò alla soglia. Vestiva in modo sportivo e il suo aspetto non mostrava alcuna particolarità. Sembrava un uomo come tanti altri che conoscevo e frequentavo. Ebbi timore che quell’incontro si sarebbe rivelato un fiasco.
Il mio ospite propose di darci del tu, ma non sembrò desideroso di parlare a proposito delle cartoline. Gli mostrai immediatamente i libri, sperando che si decidesse a raccontarmi qualcosa. Non osavo incominciare io. Avvertivo che esisteva una sorta di codice di comportamento che lasciava la prima mossa a colui che aveva pubblicato l’inserzione, ma in questo caso pareva che tutto avvenisse senza regole. Era un semplice scambio di oggetti.
L’uomo si guardava intorno, osservando i dettagli del mio appartamento. Quando ormai avevo perso le speranze che fosse lui a prendere l’iniziativa, sbottò, come incidentalmente.
- Ti sei mai chiesto come mai a qualcuno venga in mente di collezionare cartoline con immagini di campanili? O qualsiasi altra cosa, beninteso…- pareva divertirsi molto al pensiero della risposta che stava per darmi. Mi sentii sollevato: mi aveva risparmiato la domanda che stavo per formulare.
- Queste cartoline appartenevano ad una mia prozia, alla quale le aveva lasciate il parroco di cui era la perpetua. Abitavano in un paesino che molti anni fa fu travolto da una grossa frana. Il campanile della chiesa crollò e il parroco diede vita ad una gara di solidarietà per ricostruirlo. All’inizio si limitò a raccogliere il denaro delle offerte e a commissionare i lavori a una ditta guidata da un ingegnere del paese, ma ben presto rimase vittima di una certa mania di grandezza. Cominciò a cercare immagini di tutti i campanili d’Europa, perché voleva che quello della sua chiesa fosse il più alto e il più bello. Certo, non mirava ai grandi capolavori dell’architettura, ma almeno ai campanili dei paesi di provincia… Si fece spedire cartoline da tutti i curati che conosceva, lo prese una smania incontenibile di cercare da solo il modello che avrebbe dovuto seguire il progettista. Spese molto del denaro destinato alla ricostruzione in libri e cartoline, finché la faccenda non diventò una tale paranoia, che furono costretti a ricoverarlo. Morì internato, ma continuò a progettare da solo campanili fino alla fine dei suoi giorni. Per sua espressa volontà le cartoline andarono alla mia prozia. Pensa che continuarono ad arrivarne per anni anche dopo la sua morte. Sono duemilasettantasette, catalogate. – concluse ridacchiando- Pensa, esistono persone che impazziscono per cose simili! Nel suo caso la passione fu casuale, ma ci sono anche persone che si fissano con una collezione… un mio vicino di casa raccoglie etichette di acqua minerale, perché – mi ha spiegato – suo padre era un chimico che analizzava le acque e fin da bambino lui era affascinato dalla loro composizione…-
Era venuto il mio turno, dunque.
- Anche questi libri hanno una storia singolare. Avevo uno zio artista, se n’è andato lo scorso anno…era convinto di essere un grandissimo pittore, poco compreso - ridemmo insieme del mio parente sprovvisto della necessaria capacità di autocritica – Per guadagnare si mise a copiare i quadri dei grandi artisti, ma poiché non si poteva permettere edizioni d’arte troppo costose, si accontentava di dipingere brutte copie dai fascicoli settimanali o da queste collane economiche. Vendeva i quadri come “falsi d’autore”, ma ovviamente lui non era un autore conosciuto. Campò tutta la vita così. Al suo paese lo chiamavano Modì. Dovevi vedere come si atteggiava! Sembrava il classico pittore parigino del nostro immaginario: basco, baffetti, camicione sporco… simulava anche la erre francese! Si è fatto seppellire coi due volumi che mancano tra le braccia…- simpatico, questo mio zio. Immaginai che da bambino dovessi esserne affascinato – Da bambino ne ero affascinato, dicevo in giro che volevo diventare come lui. Tutti ne erano divertiti, ma per me era una faccenda seria… - ridemmo ancora, questa volta l’incontro aveva preso una piega leggera.
Il mio ospite mi raccontò ancora di suoi conoscenti collezionisti di stranezze ed io di rimando snocciolai un albero genealogico colmo di pazzi furiosi. Era da tempo che non provavo tanta simpatia per la mia famiglia.
- Certo che si spiega come mai sei così simpatico! – mi lusingò l’amico occasionale – Con una famiglia simile devi essere cresciuto in mezzo all’allegria! –
Sì, ero cresciuto in un ambiente sereno, in mezzo a zii e zie artistoidi. Sì, continuavo a frequentare i miei cugini, ci si vedeva spesso. Sì, anche i miei genitori erano persone brillanti, mio padre… mio padre era … cosa diavolo faceva mio padre? Dirigeva la banda del paese? Suonava il piano? Sì, era maestro di piano e mia madre insegnava il violino, ma io no, no io non suonavo perché ero sordastro dalla nascita… Mio dio! Quella conversazione sembrava una raffica di fuoco. Non ci risparmiavamo battute e aneddoti. Mi divertii come un ragazzino. Arrivammo a tarda notte stremati. Fu una delle serate più divertenti della mia vita.
Quando se ne andò, lasciandomi almeno venti album di cartoline raffiguranti vedute con campanili, continuai a pensare a quella mia famiglia di gente vivace, amante dell’arte e della vita. Peccato per il fratello in galera, e per la moglie un po’ puttana.
Sfoglio spesso gli album di cartoline, da allora: mi piacciono i campanili.



Cerco stampi da dolce con forme originali. Offro in cambio stivali da pesca, misura 44-47, mai usati, ancora nel cellophane. Ore pasti… numero urbano.
Orami era diventata un’abitudine. Mi concedevo solo un incontro alla settimana, ma mi preparavo con cura. Presi a frequentare pochissime persone, gli amici mi annoiavano, ripetevano sempre le stesse cose.
Stampi da dolce con forme originali? In che senso? Cosa intendeva l’inserzionista col termine “originali”? Un orsacchiotto o una stella meritavano di far parte della categoria? O si intendeva qualcosa di più estremo, come lo stampo che avevo trovato a forma di missile o quello sagomato come una palma?
Non si può neppure immaginare la quantità di stranezze reperibili in un negozio di casalinghi.
Procurarmi gli oggetti di scambio era un gioco interessante, che mi permetteva di conoscere aspetti della vita che non avevo mai considerato.
Quanto poteva essere importante confezionare dolci di forma insolita?
La donna che me lo rivelò sembrava qualsiasi cosa, tranne una persona abile in cucina.
Era magrissima, pelle e ossa, di un aspetto così dimesso da apparire commovente. Parlava senza mai guardarmi negli occhi, fissando invece l’ultimo bottone in basso del suo cappotto grigio (stava per staccarsi? Sì, sarebbe potuto accadere da un momento all’altro).
Ci incontrammo in un bar vicino alla zona industriale. Probabilmente lei abitava da quelle parti, in uno dei palazzoni dormitorio tutti uguali. La donna mi attendeva ad un tavolo. Fumava assaporando ogni boccata con lentezza, spalancando la bocca come per fagocitare grandi quantità d’aria. Non so se fu suggestione, ma mi parve odorasse di biscotto.
Gli stampi le piacquero molto, specialmente la palma. Aveva già uno stampo a forma di missile, ma era diverso, più piccolo.
Mi mostrò gli stivali da pesca: erano mostruosi. Enormi guaine di gomma verde che arrivavano fino all’inguine. Disse che erano di suo figlio.
- E’ sempre stato un ragazzo gentile, sa? Molto premuroso, finché non ha conosciuto quella là… - era evidente che aveva qualcosa in sospeso con la nuora – Aveva degli interessi, sa? Amava la pesca e leggeva tutto quello che si pubblica in materia, ma quando ha conosciuto quella non è andato più fuori città durante il fine settimana. E’ gelosa, quella, dice lui. Io dico che è rabbia, tutta invidia perché lui ha amicizie e lei è sempre sola, non frequenta nessuno. Una carogna, sa?Una donna cattiva. Lo vuole tutto per sé. Lui viene ogni tanto a farmi visita, ma di nascosto, sa? – no, non lo sapevo, non potevo saperlo. Mi stupiva che una donna così minuta potesse contenere tanto livore – Hanno un bambino, cattivo come la madre. E’ mio nipote, ma io lo detesto. Non lo vedo mai, anche lui viene a farmi visita qualche volta con mio figlio, di nascosto. Lei non vuole che io lo veda perché dice che con mio figlio ho fatto dei danni e non vuole che li faccia anche col suo. Che se lo tenga. Cerco di essere affettuosa solo per far piacere al mio ragazzo, ma lo vedo che è un bambino cattivo.
Anche lui non ha amici, come sua madre, litiga con tutti- spense la sigaretta, ma ne accese immediatamente un’altra, riprendendo il discorso accompagnato da quei gesti liturgici – Una carogna di bambino, come sua madre. Il mio ragazzo non pesca più. Gli piaceva tanto. Ho provato a regalargli questi stivali nuovi, perché speravo che si riprendesse un po’ della sua vita. Glielo dico sempre: “ E’ cattiva, lasciala. Puoi stare con me, finché non ti sistemi”, ma lui pensa al bambino, a quella carogna di bambino cattivo come la madre. Non vuole andare a pescare, alla domenica, dice che deve aiutare quella là a fare le faccende, perché lei è sempre stanca. Non lavora mica, sa? Quella là è furba! Si fa mantenere e si lamenta di tutto, e lui ci casca sempre perché è buono, gli ho sempre insegnato ad essere generoso. Ho cresciuto un figlio fesso, ecco cos’ho sbagliato! Certo che mio nipote non viene su fesso come il padre, non è buono come lui! Con tutte le brave ragazze che gli ronzavano intorno… perché è un bel ragazzo, sa? – distolse finalmente gli occhi dal bottone precario del cappotto ed estrasse dalla borsa una fotografia. Me la mostrò. Si vedeva la donna, vestita con un accenno di cura, accanto ad una specie di gigante con la faccia tonda. Per la seconda volta mi stupii della capacità di quella piccola donna di contenere , o aver contenuto in passato, qualcosa di così enorme. La donna parve leggermi nel pensiero- E’ un bel ragazzo vero? Pesava quasi cinque chili quando è nato, sa? - continuavo a non saperlo, ma lo immaginavo – E’ sempre stato un ragazzone, ma quella là non lo fa mica mangiare bene, sa? quando viene a trovarmi si avventa sui piatti che sembra affamato. Non capisce che un ragazzone che lavora tanto ha bisogno di nutrirsi? E’ una donna cattiva, dice che deve stare a dieta, che sennò ingrassa e il cuore ne soffre. Figurarsi! Il cuore del mio ragazzo è grande e sano… e che quella pensi a lei, che fuma continuamente e lo fa soffrire. Era un ragazzo allegro, sa? Ora è sempre triste, quella là gli ha mangiato l’anima…lei ha ancora la sua mamma? –
No, mia madre era morta da qualche anno. Non ci vedevamo mai, lei era perennemente in viaggio.
- Sì, certo, ci vediamo spesso. Gli stampi, infatti, sono suoi. Ne fa collezione, ma questi li ha doppi. Mamma cucina molto bene, prepara ottimi dolci, gelati soprattutto – non ho mai visto mia madre sbattere un uovo, avevamo una domestica fissa che cucinava per noi. Io ero un ragazzo piuttosto ricco – Io non sono sposato, non ho trovato la ancora la ragazza giusta. Sono stato fidanzato, però. Volevo bene a quella ragazza, era una compagna di scuola. Anche a mamma piaceva molto, ma qualcosa non ha funzionato. Abbiamo avuto un fidanzamento lungo, forse troppo. Magari se ci fossimo sposati subito e avessimo avuto dei bambini…- lasciai intravedere un rimpianto. Io avevo avuto una moglie? Sì, ma era un po’ puttana. Mi dispiaceva parlarne con quella donna, credevo che volesse rassicurazioni. – Mio fratello, invece, è sposato ed ha già tre bambini. Pensi che ha due anni meno di me! – ma mio fratello non era in galera? Forse si trattava di un altro – Lui è stato fortunato, ma forse col tempo anche la moglie di suo figlio cambierà… pensi che la moglie di mio fratello aveva fama di essere una poco di buono – ah, anche questo fratello era incline a mettersi nei guai…- ma lui non ha mai voluto sentire ragioni. Si è innamorato e le ha dato fiducia. E’ bello constatare che ha avuto ragione lui… se fosse stato per me e per mamma, non si sarebbe sposato, ma lui è un tipo ostinato. Le persone talvolta sono diverse da come sembrano: lei si è rivelata una bravissima ragazza e un’ottima madre. Lavora, si occupa della casa e dei bambini ed è sempre allegra…-
- Suo fratello è fortunato davvero, ma certo che ha rischiato… io lo sapevo che quella là era una poco di buono, glielo si leggeva in faccia…-
- I bambini di mio fratello sono deliziosi! Certe volte quasi lo invidio. – lui, non l’altro, quello che sta in galera. Anch’io ho sposato una poco di buono, che dice di aver avuto un figlio dal mio commercialista, ma non si sa se è vero. Magari il figlio è mio… fui colto dall’angoscia – Mi piacerebbe avere dei bambini, ma solo con la donna giusta – ero proprio un bravo ragazzo, di solidi principi. Matto come lo zio pittore, sfortunato con le donne, ma solido.
La donna continuava a fumare con lentezza, fissando il bottone del cappotto come se stesse per accadere un fatto irreparabile. Quando i silenzi tra noi iniziarono ad essere troppo pesanti, decidemmo di congedarci, in perfetto accordo senza parole.
Possedevo un paio di mostruosi stivali da pesca e avevo anche un fratello sistemato.
La donna possedeva invece alcuni nuovi stampi da dolce di forma originale: se li avesse tirati in testa alla nuora, forse si sarebbe sentita meglio.
Durante il viaggio di ritorno pensai a quella puttana della mia ex-moglie. Magari il figlio era mio. Avrei dovuto prenderla a schiaffi subito, ma ero un debole come mio fratello – quello in prigione – e forse anche un fallito, come il mio zio pittore. Mi sarebbe piaciuto avere un bambino, ma con la donna giusta, come mio fratello – quello sistemato.



Scambiai per mesi ogni sorta di oggetto, ascoltando storie e raccontando le mie.
Avevo scoperto che mia madre aveva avuto due mariti, che avevo anche una sorella che viveva in Australia, che mia nipote era stata selezionata per un’audizione da un regista senza scrupoli, che la mia gamba sinistra conteneva più titanio del museo di Bilbao e che mio padre aveva lavorato in aviazione. La questione con quella puttana della mia ex- moglie era ancora aperta, lei stava tentando una riappacificazione. Mio fratello aveva avuto un condono di sei mesi di pena per buona condotta. Stavo bene. Possedevo oggetti rarissimi, tra i quali un grammofono, una bicicletta elettrica e una muta da sub da bambino, che avrei potuto regalare ad uno dei figli dell’altro fratello.
Avevo ascoltato decine di sconosciuti raccontare episodi della loro vita e mi sentivo infinitamente arricchito.
Da qualche tempo avevo anche smesso di andare in ufficio, lavoravo da casa. Gli amici di un tempo avevano smesso di telefonarmi: già sapevano che avevo altro da fare.
Un giorno, mi decisi a sistemare tutti gli oggetti che avevo accumulato con gli scambi.
Un pensiero mi folgorò nella sua semplicità: potevo mettere inserzioni io, proporre scambi.
Preparai subito un’inserzione : Cerco caleidoscopi da collezione in cambio di un grammofono funzionante. Misi il numero di cellulare, che cambiai per l’occasione.
Iniziò una nuova stagione. Ora a me spettava la prima mossa, potevo raccontare per primo.
Un giorno, tuttavia, mentre controllavo la mia ultima inserzione, mi capitò di leggere un annuncio che mi lasciò di stucco: Cambio chitarra acustica da studio con muta da sub da bambino. Ore serali… cellulare.
L’uomo ossessionato dai ricordi era forse morto?
Chiamai. La voce che mi rispose non era quella dell’uomo, né quella della moglie, ma mi era ugualmente familiare. Era giovane, quasi allegra. Fissammo un appuntamento per il giorno successivo in un locale vicino all’Università.
Quando l’inserzionista si presentò, riconobbi la ragazza della giacca di pelle verde. Anche lei mi riconobbe, ma fece finta di niente. La assecondai. La chitarra era coperta da una custodia di pelle marrone. Riconobbi anche quella, l’avevo scambiata con le tegole, che ora appartenevano ad un operaio tunisino che in cambio mi aveva dato una batteria da auto e una strana storia di due donne scomparse al porto di Genova. Lui sapeva che mia sorella, prima di trasferirsi in Australia aveva vissuto in Tunisia tre anni e si era anche sposata con un ingegnere locale.
La ragazza si comportò come se non mi avesse mai visto prima. Era molto allegra.
- Il mio fidanzato è un musicista. Stiamo insieme da quando avevamo quindici anni e presto ci sposeremo. La chitarra non gli serve, gliene ho regalata una nuova, col mio primo stipendio. Lavoro nella pubblicità, guadagno molto bene. Mi hanno assunta subito dopo la Laurea, in Scienze delle Comunicazioni. Ci ho messo tre anni e una sessione a laurearmi, e col massimo dei voti! –
- La muta è di mio figlio. E’ cresciuto così in fretta che gli è durata solo una stagione… con quel che costa! Per fortuna che mia moglie è bravissima a gestire la casa, una gran risparmiatrice… -
Compresi tutto.

Il mio manoscritto è finito, posso mettere l’ultimo punto.
Scambio breve raccolta di storie con…