Cominciò tutto per caso, senza intenzione.
Mi piacerebbe ora, a posteriori, poter trovare nella mia vita qualche giustificazione, di quelle così care alla letteratura – non potevo più dormire la notte…sentivo l’inutilità delle mie giornate -, ma il confine tra finzione e verità é ormai diventato così labile per me, da indurmi a conservare quantomeno l’illusione di essere sincero.
Mi piacerebbe ora, a posteriori, poter trovare nella mia vita qualche giustificazione, di quelle così care alla letteratura – non potevo più dormire la notte…sentivo l’inutilità delle mie giornate -, ma il confine tra finzione e verità é ormai diventato così labile per me, da indurmi a conservare quantomeno l’illusione di essere sincero.
La
mia vita andava bene, avevo tutto quello che può garantire la
tranquillità : sufficiente denaro, qualche amicizia e molte
conoscenze, un buon lavoro, donne che mi tenevano compagnia senza
chiedere in cambio né soldi né impegno, prestanza fisica e tempo da
spendere.
Volevo
cambiare automobile, perciò mi procurai un paio di giornaletti di
annunci, tra quelli che le edicole distribuiscono gratuitamente, per
mettere in vendita a privati la mia auto usata.
Sfogliando
le pagine del giornale, cominciai a leggere tutte le inserzioni, con
quella noia che spinge a incuriosirsi dei dettagli, anche se non ci
interessano affatto.
Nella
sezione dedicata agli scambi lessi allora un annuncio che in un primo
momento mi divertì molto. Recitava circa così : scambio
giacca femminile in pelle verde, mai usata, taglia 42/44, con phon
professionale, purché funzionante e omologato a norme di sicurezza.
Contattare serali… seguiva
numero di cellulare.
La
faccenda mi apparve piuttosto surreale. Che genere di scambio era una
giacca di pelle verde con un phon professionale? Quante persone in
città, in possesso di un phon professionale, sarebbero state
disposte a barattarlo con una giacca di pelle verde di taglia
femminile?
Di
lì a poco uscii, ma il pensiero di quell’inserzione continuò a
tornarmi in mente per tutto il giorno, in modo ossessivo quanto
assurdo. Cominciai ad immaginare la proprietaria di quella giacca
verde, con la certezza che si trattasse di una donna, abbandonandomi
a seguire i suoi ipotetici percorsi mentali, quelli che le avevano
fatto apparire plausibile il tentativo di realizzare uno scambio di
quel genere. Non riuscii a concentrarmi su nulla e tutto questo
alimentò un insolito nervosismo verso me stesso, vittima di una
fissazione così stupida e inconcludente.
Camminando
per strada, cercai con l’immaginazione il volto di colei che aveva
scritto l’annuncio tra quelli reali in mezzo alla folla,
attribuendo il possesso di una giacca di pelle verde alle labbra,
allo sguardo o al passo di ogni donna che incrociavo.
Tornai
a casa e ripresi in mano il giornale: avrei potuto telefonare, se non
altro per avere conferma dell’idea che mi ero fatto della
sconosciuta inserzionista. Rileggendo il trafiletto mi sentii un vero
idiota. Per qualche ora mi fu sufficiente a dimenticarmene, ma quando
presi sonno, l’inconscio mi riportò verso la stessa ossessione con
la logica simbolica e sovvertita dei sogni .
La
mattina successiva chiamai, da una cabina telefonica perché il
cellulare non registrasse il numero. Mi rispose, come prevedevo, la
voce di una donna giovane bruscamente svegliata. Riattaccai e mi
recai in un grande negozio di elettrodomestici. Dovevo acquistare un
phon professionale, per poterlo scambiare con la giacca di pelle
verde, unico pretesto possibile per conoscere il volto
dell’inserzionista dalla voce sonnolenta.
La
prospettiva di un incontro alleggerì la giornata, offuscata solo dal
vago timore che fosse già avvenuto lo scambio con qualche altra
persona, e che pertanto non solo non avrei conosciuto la donna
dell’annuncio, ma mi sarei ritrovato in casa anche un costoso phon
professionale, del tutto inutile per me. Sono calvo, infatti, da
almeno dieci anni.
Alla
sera chiamai, con una certa titubanza. La voce mi apparve più
distesa, quasi allegra.
-
Chiamo per
l’annuncio. Mi interesserebbe vedere la giacca, poiché possiedo un
phon che non mi serve…-
normalmente risultavo più disinvolto.
-
Bene! Le è l’unico
ad aver chiamato sa?-
rispose la ragazza con entusiasmo – Pensa
che potremmo incontrarci in questi giorni? Vuole che venga io da lei,
o preferisce che ci incontriamo da qualche parte?-
Sembrava
piuttosto pratica di queste faccende.
-
Come preferisce lei…
se mi dice dove abita potrei raggiungerla io…-
La
mia proposta parve spiazzarla, ma subito la ragazza riprese in mano
la situazione e fissò un appuntamento.
-
Se le va bene ci
possiamo vedere domani all’ora di pranzo davanti al monumento a
Cavour, nella piazzetta in centro. Facciamo verso le 12,30? –
Avrei
voluto replicare, l’ora e il luogo erano scomodissimi per me, che
lavoro fuori città, ma non volevo rimandare l’incontro. Avrei
trovato il modo di liberarmi.
-
Va benissimo –
mentii
– Come potrò riconoscerla? –
Anche
questa volta dovevo aver detto qualcosa di sbagliato. La ragazza
rimase in silenzio per qualche secondo, poi chiuse con tono freddo la
telefonata.
-
Avrò una sciarpa azzurra al collo… ma non credo che a quell’ora
ci saranno molte persone sotto il monumento a Cavour, specie con una
giacca di pelle verde avvolta nel cellophane tra le braccia…-
il tono di scherno non mi irritò, la freddezza sì – A
domani, allora! –
-
A domani
– la mia voce sfumò nel silenzio dell’assenza di linea. Aveva
riattaccato.
Il
giorno seguente mi presentai all’appuntamento curioso come un
ragazzino. Ero in anticipo e portavo in un sacchetto il phon con
tutti gli accessori. Mi ero preoccupato di toglierlo dall’imballo e
di conferirgli l’aspetto di un oggetto usato, con scarso successo.
Era palesemente nuovo.
Perché
mi stavo comportando in modo così stupido? Quale morbosità mi aveva
spinto a cercare di conoscere una donna della quale sapevo solo che
possedeva una giacca di pelle verde e desiderava un phon
professionale? Non cercavo una conquista, non avevo bisogno di
avventure con sconosciute.
In
quel momento la faccenda mi si mostrò in tutta la sua assurdità e
pensai seriamente di andarmene, quando vidi una ragazza che veniva
verso di me, con un sacchetto di cellophane tra le braccia. Era lei,
con la sua giacca di pelle verde.
Facemmo
una breve presentazione, poi la ragazza si accomodò su una panchina
invitandomi con lo sguardo a sedere accanto a lei.
Mi
guardava con un certo interesse, malcelato e indiscreto. Non potevo
darle torto. Certamente stava pensando a cosa mi potesse servire un
phon professionale. Non che una giacca da donna di pelle verde
potesse essermi più utile, tuttavia.
Non
posso dire se la ragazza fosse come l’avevo immaginata: era un tipo
piuttosto comune, graziosa ma per nulla appariscente. In altre
circostanze non l’avrei neppure guardata, ma allora concentrai
tutta la mia attenzione su di lei, sui suoi occhi, sui capelli
castani, lisci e spettinati, portati corti intorno al viso ovale ( a
che le serviva un phon professionale?).
Fu
lei a rompere il silenzio che aveva accompagnato il reciproco studio.
Estrasse dal cellophane la giacca verde per mostrarmela.
-
Questa è la giacca.
L’ho indossata solo un paio di volte, sai? –
notai subito che usava un modo piuttosto confidenziale, come se le
fosse stato abituale – Non
è per nulla rovinata! –
Simulai
un interesse per quel capo, invero piuttosto brutto. Non feci neppure
in tempo a replicare qualcosa, che la ragazza prese a raccontare.
-
Io facevo l’attrice, fino a due anni fa. Non ero una
professionista, lo facevo solo per hobby. Studio, all’Università,
Scienze Politiche, sono al terzo anno ma non ho dato tutti gli esami
perché nel frattempo lavoro anche… Beh, facevo l’attrice in una
compagnia amatoriale che si esibisce nei teatri della provincia. Il
mio fidanzato mi ha regalato questa giacca. Mi piaceva tanto! Lui
recitava insieme a me ed era davvero bravo; insieme eravamo molto
affiatati sul
palcoscenico, ci
conoscevamo così bene che era facile sintonizzarci sempre coi tempi
e le battute. E’ importante: in coppia funzionavamo benissimo. Io
credevo che questo fosse la nostra forza e che il rapporto tra noi
fosse privilegiato, sia sul palco, sia nella vita. Due anni fa
stavamo lavorando ad una rappresentazione di cui eravamo protagonisti
insieme, ma io mi sono ammalata. Cominciò con una febbre lieve ma
continua, che mi faceva sentire sempre stanca. Avevo capogiri e
momenti di vuoto di memoria, così mi risultava sempre più difficile
recitare. Non riuscivo più a fare neppure le altre cose: figurati
studiare! Un po’ alla volta la mia situazione peggiorò: stavo bene
solo a letto, in un costante dormiveglia. Se non lavoravo però non
avevo denaro e per un certo periodo mi fu possibile andare avanti
perché avevo qualcosa da parte, ma col passare del tempo le cose
andarono sempre peggio, finché non fui costretta ad andare in
ospedale. Era un’infezione interna, una malattia poco frequente,
che si cura con gli antibiotici. Restai in ospedale tre mesi. Nei
primi tempi il mio fidanzato mi stava molto vicino, ma a poco a poco
notai che si stava distaccando: usciva frequentemente,
con la scusa del
teatro o del lavoro, ma io sapevo che non era vero. Faceva il barista
in un pub, lavorava di notte e normalmente tornava a casa alla
mattina e dormiva fino a metà pomeriggio, poi andava alle prove e al
lavoro. Sempre così, tutti i giorni fino ad allora. Poi cominciò a
fare orari strani, tornava a casa raramente. In teatro ero stata
sostituita da un’altra ragazza, ma io pensavo che non sarebbe mai
stata brava come me perché con lui non aveva lo stesso affiatamento.
Quando fui ricoverata in ospedale, lui non venne quasi più a
trovarmi, finché non scomparve del tutto, senza dirmi neppure una
parola. Provai a chiamarlo tante volte, ma non mi rispose mai. Ero
così malata e così rassegnata che non mi fu difficile smettere di
pensare a lui, ma quando uscii dall’ospedale lo andai a cercare.
Abitavamo insieme, in un appartamento che avevo trovato io. A casa
non c’erano più tracce di lui, aveva portato via tutto. Andai a
teatro, allora: lo vidi uscire con
quell’altra,
quella che mi aveva sostituita. Lei portava una giacca di pelle verde
identica alla mia.
Da allora non ho mai più
messo la giacca ed ora non sopporto più di vederla, sono cambiate
troppe cose. Non recito più, lavoro un po’ in casa e studio, non
vedo nessuno e non mi fido più di nessuno. Mi arrangio. Ora faccio
la parrucchiera a domicilio: si guadagna abbastanza bene e sono
diventata brava…ma per ora degli uomini non ne voglio più sapere.
–
Non
le avevo chiesto nulla, aveva fatto tutto lei. Mi fece una grande
tenerezza, la sentii ferita e disillusa e compresi il suo bisogno di
raccontare, ma non ero sicuro che volesse una riposta. Pareva
piuttosto che avesse solo bisogno di sfogarsi.
Mi
venne istintivo proporle di pranzare insieme. Una semplice pizza,
nulla di impegnativo.
Accettò,
ma senza entusiasmo. Dopo aver terminato il racconto della sua
storia, aveva assunto un atteggiamento di attesa, come si se si fosse
aspettata qualcosa da me, e non parole di circostanza.
Prima
di lasciare la piazzetta, le mostrai il phon. Lo guardò con
sufficienza e disse che andava bene, valeva lo scambio. Era evidente
che quel phon sofisticato non le bastava.
Istintivamente
pensai che sarebbe stato opportuno giustificarlo e fu in quel momento
che improvvisai una storia, quasi a ricambiare la confidenza che mi
aveva accordato.
Avrei
potuto raccontare la verità, magari porre le basi per un’amicizia,
ma mentii, in modo insensato.
-
Il phon è nuovo –
iniziai, mentre
camminavamo verso la pizzeria – Apparteneva
a mia moglie –
Ovviamente
non avevo mai avuto una moglie, ma avvertivo la necessità di
mostrarmi solidale con la ragazza e con la sua storia, offrendole
l’occasione di sentirsi compresa senza dirle espressamente nulla
che risultasse confortante.
-
Mia moglie è una
donna che tiene molto alle sua cose…non eravamo sposati da molto,
ma io credevo di conoscerla a fondo. Si mostrava sempre affettuosa e
piena di attenzioni verso di me. Lavorava solo mezza giornata in uno
studio dentistico – ma
che idiozie stavo raccontando? Uno studio dentistico : che idea!
-
Dopo qualche mese di
matrimonio un giorno sono rientrato a casa e l’ho trovata con le
valigie pronte. Andava a vivere col mio migliore amico, il mio
commercialista – Certo!
Una storia scontata, banalissima : la moglie se ne va col
commercialista., che è anche un amico di famiglia. Non avevo avuto
molta fantasia. Dovevo rendere la storia più interessante.
-
Mi disse che
aspettava un bambino, ma che non era mio. Forse non era neppure del
commercialista, né del dentista presso il quale lavorava, ma non
aveva importanza. Il bambino era suo e lei riteneva che il mio amico
sarebbe stato un padre più affidabile – una
storia che non stava in piedi, ma la ragazza sembrò molto colpita.
Pensai di insistere.
-
Anch’io sono stato
ferito, come vedi. Ora lei ha un bambino di pochi mesi, ma a quanto
mi dicono non ha modificato le sue abitudini. Non voglio ascoltare
ciò che si racconta di lei: io l’ho amata e preferisco pensare che
sia quella che immaginavo. Mi sto liberando di tutto ciò che le
apparteneva, però. Non è mai tornata a prendere le sue cose,
neppure dopo la separazione. Ora frequento una brava ragazza, ma
prima di impegnarmi voglio essere sicuro di conoscerla sul serio –
ottimo! Non ero
solo, mi ero costruito una via di fuga da quella ragazza. Ero ferito,
ma non del tutto scoraggiato, ne uscivo positivo: non macho, non
troppo debole, non avvelenato verso le donne. Un signore, un vero
signore. Mi piacevo.
Quando
smisi di raccontare “la mia storia”, la ragazza aveva cambiato
sensibilmente l’atteggiamento verso di me. Pareva soddisfatta.
Continuammo
a parlare al tavolo del ristorante, aggiungendo dettagli alle vicende
che avevamo raccontato. Lei parlava con naturalezza, descriveva il
suo ex-ragazzo, si entusiasmava narrando del teatro, si intristiva
quando ricordava la malattia.
Io
cercavo di restare al passo, ormai entrato nella parte del marito,
tradito da una grandissima puttana, che tuttavia non odia le donne.
Fu piacevole, molto piacevole.
Ci
salutammo dopo pranzo, ma quando le proposi di rivederci mi freddò
con un secco non è
il caso. Pensai che
la sua ferita sanguinasse più della mia.
Quale
“mia ferita” ? Cosa stavo facendo? Mi ero inventato tutto, io non
ero mai stato tradito da una moglie che non avevo mai avuto.
Ci
scambiammo gli oggetti e ci separammo, riprendendo le nostre vite
che casualmente si erano incrociate solo per poche ore. Tenevo
appoggiata al braccio la giacca di pelle verde e in bocca il sapore
di un’esperienza singolare. Era un buon sapore.
Nei
giorni che seguirono mi capitò di pensare spesso alla ragazza e alla
sua triste vicenda. Nessuna delle donne che frequentavo aveva vissuto
qualcosa di simile, o se era accaduto, nessuna l’aveva mai
raccontato. Non era la storia in sé che mi aveva colpito, quanto
piuttosto il fatto che la ragazza l’avesse voluta condividere con
me: ero uno sconosciuto. Mi sentii privilegiato. Non avevo sensi di
colpa riguardo alla mia storia inventata, poiché era evidente che
aveva messo la ragazza a suo agio. Era una menzogna, ma non aveva
fatto male a nessuno.
La
giacca di pelle verde era appesa nell’armadio, avvolta nel
cellophane.
La
settimana successiva presi all’edicola un nuovo numero del
giornaletto di annunci. La mia auto era stata messa in vendita,
volevo verificare l’inserzione.
Mosso
da improvvisa frenesia, iniziai invece a scorrere gli annunci di
scambio.
Scambio
un centinaio di tegole antiche con chitarra acustica da studio. Ore
pasti…seguiva
numero fisso, della rete urbana.
Tegole
antiche? Che valore potevano avere? Chiamai un amico che si occupava
di oggetti d’antiquariato, il quale mi disse che le tegole potevano
anche avere un pregio e che in ogni caso c’era chi le cercava:
collezionisti, architetti, privati che ristrutturano vecchi casali.
Perché
scambiarle con una chitarra acustica - da studio, tra l’altro?
La
curiosità si impossessò nuovamente di me. Dovevo sapere che genere
di persona potesse essere colui o colei che aveva immaginato un
simile baratto.
Cercai
di porre qualche resistenza verso questa nuova insensatezza, ma non
mi riuscì. La mia fantasia ricominciò immaginare volti, logiche,
vicende che potessero corrispondere ad un possessore di tegole
antiche che desidera una chitarra acustica da studio.
In
quei giorni il lavoro mi impegnò molto, ma non riuscì mai a
distogliermi dal pensiero di un nuovo baratto. Anche con gli amici mi
comportavo in modo assente, ascoltavo senza alcuna attenzione ciò
che mi dicevano, come se ci fosse qualcosa di troppo scontato in
tutto ciò che avevamo sempre condiviso. Stavo progressivamente
prendendo le distanze dalla abituale quotidianità, rifugiandomi
sempre più spesso in articolate costruzioni mentali che riguardavano
un illustre sconosciuto.
Quando
la mia curiosità raggiunse il culmine, telefonai all’inserzionista.
Mi
rispose una voce maschile, roca, che strascicava le parole con una
lentezza esasperante. Mi pentii quasi subito di aver telefonato, ma
ormai ero in gioco.
-
Ho letto l’annuncio sul giornalino
– questa
volta mi sentii più sicuro
– Sarei
interessato a vedere le sue tegole –
- Lei ha una chitarra
classica da studio? – mi
rispose l’altro, pragmatico.
La
domanda mi colse impreparato: io non avevo alcuna chitarra. Non
avevo pensato al termine di scambio. Non restava che mentire.
-
Certamente, ma è necessario che lei la veda. Apparteneva a… -
a chi apparteneva la chitarra che non possedevo? - …
a mio fratello. Io non sono molto pratico. Sarebbe opportuno che ci
incontrassimo. Se lei è libero potrei
passare durante il
fine settimana, immagino che lei non abbia modo di muoversi con tutte
le tegole… -
geniale! Sicuro, logico, disinvolto.
-
Se viene sabato pomeriggio le faccio vedere le tegole
– rispose l’uomo
– Le
tengo in garage. L’aspetto dopo pranzo, così le offro anche un
caffè. Porti la chitarra. Ha anche la custodia?-
-
Sabato va bene. Credo che abbia anche la custodia, ma devo verificare
che sia tutta in ordine – era
una stupidaggine, ma mi serviva prendere tempo.
-
Va bene comunque, le do l’indirizzo…-
Avevo
un nuovo appuntamento, mi serviva urgentemente una chitarra, ma
questa volta avrei cercato qualcosa di usato.
Trovai
quello che cercavo in un negozio di strumenti musicali che trattava
anche oggetti di seconda mano. Era una bella chitarra, molto in
ordine, con corde nuove e la cassa di un legno biondo. Non ne capivo
nulla, ma il commesso del negozio fu molto gentile e mi fornì
informazioni preziose. La chitarra aveva anche la custodia, una busta
sagomata in similpelle marrone. Mi raccomandai che fosse una chitarra
da studio. Aveva il manico abbastanza largo.
Sabato
pomeriggio mi recai all’appuntamento.
All’indirizzo
mi aspettava un vecchio, piuttosto gonfio, che camminava inclinato da
un lato con le braccia abbandonate pesantemente lungo i fianchi.
Strascicava il passo e le parole e puzzava di vino. Era evidente che
beveva troppo. Mi porse una mano larga e molle, che subito fece
ricadere sulla coscia.
-
Vuole vedere subito le tegole o ci facciamo un caffè?
– biascicò.
Mi
parve gentile optare per il caffè. La cucina della casa testimoniava
l’assenza di una mano femminile, ma la mia frettolosa
considerazione fu smentita dalla comparsa di una donna altrettanto
gonfia, storta e biascicante. Bevevano in compagnia, i miei ospiti.
Mi
misero davanti una tazzina di liquido fumante, che proposero di
correggere con un dito di grappa. Rifiutai, ma la coppia non disdegnò
di versare un buon sorso di distillato nelle rispettive tazze.
Contenevano più grappa che caffè.
Mentre
sorseggiava, il vecchio iniziò a raccontare, come se seguisse un
copione che gli diceva che era il momento del suo monologo.
-
Perché vede, quando c’era la guerra e noi eravamo sfollati in
campagna – parlava
come se rispondesse a domande
– si raccoglieva un po’ di tutto, così magari si rimediava
qualcosa da mangiare… -la
moglie annuiva, con lo sguardo che fissava un punto del muro. L’uomo
procedeva a frammenti.-
Noi eravamo ragazzini…era anche un gioco, tutta una ruberia, ma non
ci sembrava di rubare…Perché noi si aveva fame e quando si
rompevano le scarpe, non è che si buttavano, ma si cercava di
metterci delle pezze per passarle ai più piccoli… perché si
usavano anche i vecchi copertoni delle ruote, che anche quelli
servivano per scambiare con qualche uovo, o qualche sacchetto di
farina…Perché si
mangiavano anche le rane dei fossi, ma non ci piacevano mica tanto e
non riempivano la pancia. Le donne le friggevano nell’olio che era
sempre fritto e rifritto, così nero che sembrava quello dei motori…
- ridevano
entrambi, con amarezza sguaiata –
Perché magari a qualcuno potevano servire dei mattoni e quello aveva
delle galline…noi eravamo sei fratelli, ma il più grande era al
fronte, che poi è tornato senza un occhio e la fidanzata non lo
voleva più… quando arrivarono gli Americani le ragazze non si
ricordavano dei fidanzati che erano in guerra e facevano le civette…
mica glielo dicevano, agli Americani, che mangiavano rane e che
avevano le scarpe con la suola fatta con la gomma delle ruote! –
rideva, versando grappa sul fondo della tazzina. La moglie continuava
ad annuire, persa sul muro.
– Perché dopo la guerra si aveva l’abitudine di conservare
tutto, che non si sa mai… con la paura della miseria… è ben
brutta la miseria, sa? Lei lo sa cos’è la miseria? No di certo: lei
è giovane. Ha studiato, vero?- domandava,
ma senza aspettare risposte: le aveva già
– Perché durante la guerra andavamo anche a scuola, perché chi
sfollava in campagna era più al sicuro… avevamo fame, ma a scuola
ci si andava. Perché si stava insieme nella stessa classe i grandi e
i piccoli, che non c’era mica da fare tanto gli schizzinosi con la
maestra… eravamo trenta, quaranta bambini, di tutte le età. C’era
anche questa qua –
precisò, indicando la moglie
– Piangeva sempre e rubava tutto quello che poteva, ma io le volevo
bene anche quando era piccola. Era bella, sa? Adesso è grassa e
vecchia, ma da ragazza me la invidiavano tutti. Lei ha voluto me…
perché siamo stati insieme due anni, che le città erano bombardate
e noi cercavamo le rane nei fossi e tutto quello che si poteva
scambiare. Ma lei ha voluto me, perché c’era anche il figlio del
farmacista che la voleva, ma io le volevo più bene e lei mi ha
preso… -
-
Bell’affare… -
riemerse la moglie, sarcastica.
-
Ma stai zitta! Che il farmacista non lo sapeva che diventavi così
grassa e che facevi da mangiare da schifo!
– il
vecchio stava cominciando ad alterarsi in modo pericoloso.
Cercai
di interrompere quel flusso di ricordi, che aveva poco a che fare con
le tegole. Presi la chitarra, togliendola dalla custodia. Iniziai a
inventare.
-
E’ la chitarra di mio fratello, ma a lui non serve più. Ora sta in
prigione – santo
cielo! Perché l’avevo detto? Mi ero cacciato in una storia odiosa,
ma in qualche modo volevo rispondere allo sproloquio drammatico di
quell’uomo con altrettanta forza.
-
Ha ucciso un uomo durante una rissa. Aveva offeso la sua ragazza,
perciò erano venuti alle mani. Mio fratello gli ha dato un pugno che
l’ha spedito a terra. L’altro ha battuto la testa contro uno
spigolo ed è morto sul colpo
– era la scena di un film, il vecchio e la moglie non potevano
averlo visto – Si
è preso sei anni, con la preterintenzione, perché aveva qualche
piccolo precedente per faccende di droga. Deve scontarli tutti,
uscirà tra due anni. Era bravissimo con la chitarra, questa la
suonava da ragazzino. E’ stato lui a dirmi di venderla, o
scambiarla. Suonava con un gruppo e faceva molte registrazioni con
artisti famosi -
non reputai
necessario elencare gli artisti coi quali aveva suonato il mio
fratello immaginario
– E’ un bravo ragazzo, ma ha un carattere debole. Ha avuto la
sfortuna di frequentare compagnie negative, ma non è mai stato un
violento. Pensate
che la ragazza, dopo che lui è finito in galera per difenderla, l’ha
lasciato e ora sta con un altro…-
quel fratello era uno stereotipo disgustoso.
La
coppia si era molto interessata alla vicenda ed entrambi esaminarono
con grande attenzione la chitarra, come se tra le venature del suo
legno si potesse leggere lo sfortunato destino di mio fratello. Mi
sembrò di poter osare una domanda.
-
Lei suona? –
chiesi all’uomo.
-
Sì, suono abbastanza bene, ma mi occorre una chitarra col manico
largo, perché le mie dita sono troppo gonfie…-
accennò un paio di arpeggi
– Suono
spesso in osteria. Perché avevo una vecchia chitarra che mi aveva
regalato un Americano, che quando vennero a liberarci quei ragazzi
videro che non avevamo niente… giocavamo con le palle fatte di
stracci, a piedi nudi… lei ci va a trovare suo fratello in
prigione? –
-
Ci vado spesso, siamo molto legati, anche se siamo diversi. Io sono
il maggiore e sono sempre stato più serio di lui, fin troppo
studioso. Però ci siamo voluti bene sempre… -
mi immalinconii con le mie stesse parole. Era davvero surreale.
Cercai
di portare il discorso sulle tegole, per accelerare lo scambio: il
rapporto con quell’uomo stava diventando troppo penoso e la
nostalgia per il fratello scapestrato che non avevo mai avuto si
faceva insopportabile.
Andammo
in garage, solo il vecchio ed io. La moglie era rimasta seduta al
tavolo della cucina, interessata al muro e smarrita nella grappa e
nei ricordi.
Le
tegole erano ammassate in un angolo. Finsi di apprezzarle e il
vecchio mi spiegò che erano lì da più di quarant’anni e che
prima erano appartenute alla casa di campagna nella quale si erano
rifugiati durante la guerra.
-
Perché i miei lavoravano in città, ma coi bombardamenti erano
tornati con la famiglia al paese… che noi eravamo in sei fratelli e
non c’era mica da dividere granché, con la miseria e i tedeschi…
che mia sorella più piccola gliel’abbiamo
strappata dalle mani
a un porco di tedesco, che non si capiva mica cosa voleva farci con
quella bimba senza le scarpe…-
Non
ce la facevo più, troppo dolore. Quell’uomo era stato un bambino,
aveva avuto paura e troppa fame per invecchiare serenamente.
Caricai
le tegole nel bagagliaio dell’auto da solo: il vecchio non ce la
faceva, barcollava e pareva sempre più storto.
Quando
mi allontanai provai sollievo, ma non mi fu facile per giorni
smettere di pensare a quel pomeriggio. Sognai varie volte ragazzini
che giocavano alla guerra saltando qua e là attraverso i fossi.
Vedevo in sogno un tedesco che allungava le mani su una bimbetta con
una giacca verde, verde come una rana, che friggeva nell’olio
scuro, in una casa bombardata col tetto senza tegole. Una donna
rideva, rideva e puzzava di alcol.
Impilai
con ordine le tegole in cantina.
Il
lunedì ripresi a lavorare sollevato, ma mi capitava di frequente di
pensare a quella puttana di mia moglie che stava col commercialista e
a mio fratello chiuso in galera per aver difeso con troppa foga una
donna che non l’aveva aspettato. Presi a riflettere sul perché di
storie così sofferte. Era ovvio: rispondevo alle vicende drammatiche
che mi avevano raccontato dando di me l’immagine di una persona
abbastanza segnata dalla vita per poterle comprendere. Si veniva a
creare così un’empatia con questi sconosciuti, come non avevo mai
provato con amici che frequentavo da sempre. Le vicende che avevo
inventato, corrispondevano alla tensione emotiva che si era creata in
virtù dei racconti degli altri, di fronte ai quali non potevo
restare indifferente, né tantomeno mostrarmi per ciò che ero sempre
stato : un uomo fortunato.
Eppure
mi sentivo completo come non ero stato mai prima, mi guardavo allo
specchio pieno di compiacimento verso di me, che avevo superato
brillantemente il dramma di una moglie puttana e di un fratello in
prigione. Non era vero? Non storicamente.
Quando
uscì il numero settimanale del giornale di inserzioni, non cercai
neppure una giustificazione. Lessi subito la pagina degli scambi,
colmo di aspettative.
Cerco
volumi della serie “ I maestri della Pittura”, da scambiare con
collezione di circa duemila cartoline con vedute di campanili. Ore
pasti… seguivano
un numero fisso e un numero di cellulare. I maestri della pittura
dovevano interessare davvero al mio futuro interlocutore.
Prima
di avventurarmi in un nuovo appuntamento, mi regalai un paio di
pomeriggi tra i banchi dei libri usati, che sostavano tutto l’anno
sotto le volte del mercato vecchio. Riuscii a trovare, ad un prezzo
davvero modico, quasi tutta la collezione completa. Si trattava di
venti volumi rilegati, di qualità discreta. Mancavano solo i volumi
relativi a Manet e a Chagall, ma pensai che il fatto avrebbe
conferito alla mia raccolta improvvisata un aspetto più vissuto.
Ero
quasi certo che il collezionista di cartoline coi campanili fosse un
anziano parroco, o un ragazzino saccente ipernutrito.
Rimasi
alquanto deluso quando all’altro capo del telefono mi rispose una
bimba, che subito andò a chiamare il papà.
-
Salve – esordii
gioviale – Ho
letto che lei possiede molte cartoline da scambiare… Io ho in casa
la raccolta che le interessa, salvo un paio di volumi… -- Potremmo
parlarne – mi
rispose un uomo allegramente – Non
mi interessa la collezione completa, se mancano solo alcuni volumi
posso cercarli io. Vuole che ci vediamo? Io sono libero solo nel
tardo pomeriggio.-
-
Potremmo vederci giovedì verso sera, se a lei va bene- proposi.
-
Giovedì non posso,
gioco a tennis, ma se le va bene venerdì sera…vengo io da lei o ci
vediamo fuori?-
-Venerdì
va bene, le lascio il mio indirizzo –
Quel
nuovo appuntamento non mi attirava, ma la bizzarra collezione di
cartoline coi campanili doveva avere una storia. Decisi di tentare.
In ogni caso avevo già acquistato i volumi dei Maestri della
Pittura.
Cosa
spingeva qualcuno a collezionare vedute con campanili? Perché allora
non cartoline con fiori, con animali selvaggi, con ponti? Tornai al
mercato dei libri usati. Mi pareva di aver visto un banco che vendeva
cartoline. Cercai un pretesto per portare il discorso col venditore
sull’argomento che mi interessava, e questi mi confermò che
esistevano i collezionisti di immagini più disparate. Non solo
cartoline con fiori, ma addirittura solo quelle raffiguranti stelle
alpine, o violette; animali? Anche solo uccelli, gatti ( anche solo
gatti bianchi), tutte le razze di cani…; ponti? Certamente: ponti,
torri, stadi…
Mi
resi conto che il mondo è pieno di gente strana. Quante possibili
collezioni si potrebbero fare? Perché si decide di collezionare
cartoline con campanili piuttosto che tappi di bottiglia, calzascarpe
o scatole di latta? E’ casuale o nasce da una fissazione maniacale
per un dettaglio al quale si attribuisce un peculiare significato?
Venerdì avrei trovato, forse, una risposta ad alcune domande.
L’uomo
che mi aveva risposto al telefono acquistò allora un inatteso
fascino. Mi pareva depositario di un segreto filosofico che non avevo
mai abbastanza considerato.
Iniziai
a immaginare le collezioni più disparate. Camminavo per le strade
fissando ogni vetrina con il sentore di potervi vedere esposto un
possibile oggetto che mi avrebbe indotto ad una raccolta. Se in casa
scovavo due oggetti simili, si scatenava un desiderio compulsivo di
possederne altri dello stesso genere. Già avvertivo il bisogno di
album, vetrine, raccoglitori di ogni tipo.
Venerdì
non arrivava mai. La mia curiosità era sul punto di farmi esplodere.
Non
avevo pensato a quello che avrei potuto raccontare, preferivo
improvvisare. Era il mio interlocutore, infatti, a suggerirmi una
storia.
Avevo
preparato tutto per l’incontro. Suonò il campanello e invitai
l’inserzionista a salire. Non mi sfiorò neppure l’idea che
potesse avere cattive intenzioni.
Un
uomo giovane si presentò alla soglia. Vestiva in modo sportivo e il
suo aspetto non mostrava alcuna particolarità. Sembrava un uomo come
tanti altri che conoscevo e frequentavo. Ebbi timore che
quell’incontro si sarebbe rivelato un fiasco.
Il
mio ospite propose di darci del tu, ma non sembrò desideroso di
parlare a proposito delle cartoline. Gli mostrai immediatamente i
libri, sperando che si decidesse a raccontarmi qualcosa. Non osavo
incominciare io. Avvertivo che esisteva una sorta di codice di
comportamento che lasciava la prima mossa a colui che aveva
pubblicato l’inserzione, ma in questo caso pareva che tutto
avvenisse senza regole. Era un semplice scambio di oggetti.
L’uomo
si guardava intorno, osservando i dettagli del mio appartamento.
Quando ormai avevo perso le speranze che fosse lui a prendere
l’iniziativa, sbottò, come incidentalmente.
-
Ti sei mai chiesto
come mai a qualcuno venga in mente di collezionare cartoline con
immagini di campanili? O qualsiasi altra cosa, beninteso…- pareva
divertirsi molto al pensiero della risposta che stava per darmi. Mi
sentii sollevato: mi aveva risparmiato la domanda che stavo per
formulare.
-
Queste cartoline
appartenevano ad una mia prozia, alla quale le aveva lasciate il
parroco di cui era la perpetua. Abitavano in un paesino che molti
anni fa fu travolto da una grossa frana. Il campanile della chiesa
crollò e il parroco diede vita ad una gara di solidarietà per
ricostruirlo. All’inizio si limitò a raccogliere il denaro delle
offerte e a commissionare i lavori a una ditta guidata da un
ingegnere del paese, ma ben presto rimase vittima di una certa mania
di grandezza. Cominciò a cercare immagini di tutti i campanili
d’Europa, perché voleva che quello della sua chiesa fosse il più
alto e il più bello. Certo, non mirava ai grandi capolavori
dell’architettura, ma almeno ai campanili dei paesi di provincia…
Si fece spedire cartoline da tutti i curati che conosceva, lo prese
una smania incontenibile di cercare da solo il modello che avrebbe
dovuto seguire il progettista. Spese molto del denaro destinato alla
ricostruzione in libri e cartoline, finché la faccenda non diventò
una tale paranoia, che furono costretti a ricoverarlo. Morì
internato, ma continuò a progettare da solo campanili fino alla fine
dei suoi giorni. Per sua espressa volontà le cartoline andarono alla
mia prozia. Pensa che continuarono ad arrivarne per anni anche dopo
la sua morte. Sono duemilasettantasette, catalogate. – concluse
ridacchiando- Pensa,
esistono persone che impazziscono per cose simili! Nel suo caso la
passione fu casuale, ma ci sono anche persone che si fissano con una
collezione… un mio vicino di casa raccoglie etichette di acqua
minerale, perché – mi ha spiegato – suo padre era un chimico che
analizzava le acque e fin da bambino lui era affascinato dalla loro
composizione…-
Era
venuto il mio turno, dunque.
-
Anche questi libri
hanno una storia singolare. Avevo uno zio artista, se n’è andato
lo scorso anno…era convinto di essere un grandissimo pittore, poco
compreso - ridemmo
insieme del mio parente sprovvisto della necessaria capacità di
autocritica – Per
guadagnare si mise a copiare i quadri dei grandi artisti, ma poiché
non si poteva permettere edizioni d’arte troppo costose, si
accontentava di dipingere brutte copie dai fascicoli settimanali o da
queste collane economiche. Vendeva i quadri come “falsi d’autore”,
ma ovviamente lui non era un autore conosciuto. Campò tutta la vita
così. Al suo paese lo chiamavano Modì. Dovevi vedere come si
atteggiava! Sembrava il classico pittore parigino del nostro
immaginario: basco, baffetti, camicione sporco… simulava anche la
erre francese! Si è fatto seppellire coi due volumi che mancano tra
le braccia…- simpatico,
questo mio zio. Immaginai che da bambino dovessi esserne affascinato
– Da bambino ne
ero affascinato, dicevo in giro che volevo diventare come lui. Tutti
ne erano divertiti, ma per me era una faccenda seria… - ridemmo
ancora, questa volta l’incontro aveva preso una piega leggera.
Il
mio ospite mi raccontò ancora di suoi conoscenti collezionisti di
stranezze ed io di rimando snocciolai un albero genealogico colmo di
pazzi furiosi. Era da tempo che non provavo tanta simpatia per la mia
famiglia.
-
Certo che si spiega
come mai sei così simpatico! – mi
lusingò l’amico occasionale – Con
una famiglia simile devi essere cresciuto in mezzo all’allegria! –
Sì,
ero cresciuto in un ambiente sereno, in mezzo a zii e zie artistoidi.
Sì, continuavo a frequentare i miei cugini, ci si vedeva spesso. Sì,
anche i miei genitori erano persone brillanti, mio padre… mio padre
era … cosa diavolo faceva mio padre? Dirigeva la banda del paese?
Suonava il piano? Sì, era maestro di piano e mia madre insegnava il
violino, ma io no, no io non suonavo perché ero sordastro dalla
nascita… Mio dio! Quella conversazione sembrava una raffica di
fuoco. Non ci risparmiavamo battute e aneddoti. Mi divertii come un
ragazzino. Arrivammo a tarda notte stremati. Fu una delle serate più
divertenti della mia vita.
Quando
se ne andò, lasciandomi almeno venti album di cartoline raffiguranti
vedute con campanili, continuai a pensare a quella mia famiglia di
gente vivace, amante dell’arte e della vita. Peccato per il
fratello in galera, e per la moglie un po’ puttana.
Sfoglio
spesso gli album di cartoline, da allora: mi piacciono i campanili.
Cerco
stampi da dolce con forme originali. Offro in cambio stivali da
pesca, misura 44-47, mai usati, ancora nel cellophane. Ore pasti…
numero urbano.
Orami
era diventata un’abitudine. Mi concedevo solo un incontro alla
settimana, ma mi preparavo con cura. Presi a frequentare pochissime
persone, gli amici mi annoiavano, ripetevano sempre le stesse cose.
Stampi
da dolce con forme originali? In che senso? Cosa intendeva
l’inserzionista col termine “originali”? Un orsacchiotto o una
stella meritavano di far parte della categoria? O si intendeva
qualcosa di più estremo, come lo stampo che avevo trovato a forma di
missile o quello sagomato come una palma?
Non
si può neppure immaginare la quantità di stranezze reperibili in un
negozio di casalinghi.
Procurarmi
gli oggetti di scambio era un gioco interessante, che mi permetteva
di conoscere aspetti della vita che non avevo mai considerato.
Quanto
poteva essere importante confezionare dolci di forma insolita?
La
donna che me lo rivelò sembrava qualsiasi cosa, tranne una persona
abile in cucina.
Era
magrissima, pelle e ossa, di un aspetto così dimesso da apparire
commovente. Parlava senza mai guardarmi negli occhi, fissando invece
l’ultimo bottone in basso del suo cappotto grigio (stava per
staccarsi? Sì, sarebbe potuto accadere da un momento all’altro).
Ci
incontrammo in un bar vicino alla zona industriale. Probabilmente lei
abitava da quelle parti, in uno dei palazzoni dormitorio tutti
uguali. La donna mi attendeva ad un tavolo. Fumava assaporando ogni
boccata con lentezza, spalancando la bocca come per fagocitare grandi
quantità d’aria. Non so se fu suggestione, ma mi parve odorasse di
biscotto.
Gli
stampi le piacquero molto, specialmente la palma. Aveva già uno
stampo a forma di missile, ma era diverso, più piccolo.
Mi
mostrò gli stivali da pesca: erano mostruosi. Enormi guaine di gomma
verde che arrivavano fino all’inguine. Disse che erano di suo
figlio.
-
E’ sempre stato un
ragazzo gentile, sa? Molto premuroso, finché non ha conosciuto
quella là… - era
evidente che aveva qualcosa in sospeso con la nuora – Aveva
degli interessi, sa? Amava la pesca e leggeva tutto quello che si
pubblica in materia, ma quando ha conosciuto quella non è andato più
fuori città durante il fine settimana. E’ gelosa, quella, dice
lui. Io dico che è rabbia, tutta invidia perché lui ha amicizie e
lei è sempre sola, non frequenta nessuno. Una carogna, sa?Una donna
cattiva. Lo vuole tutto per sé. Lui viene ogni tanto a farmi visita,
ma di nascosto, sa? – no,
non lo sapevo, non potevo saperlo. Mi stupiva che una donna così
minuta potesse contenere tanto livore – Hanno
un bambino, cattivo come la madre. E’ mio nipote, ma io lo detesto.
Non lo vedo mai, anche lui viene a farmi visita qualche volta con mio
figlio, di nascosto. Lei non vuole che io lo veda perché dice che
con mio figlio ho fatto dei danni e non vuole che li faccia anche
col suo. Che se lo tenga. Cerco di essere affettuosa solo per far
piacere al mio ragazzo, ma lo vedo che è un bambino cattivo.
Anche
lui non ha amici, come sua madre, litiga con tutti- spense
la sigaretta, ma ne accese immediatamente un’altra, riprendendo il
discorso accompagnato da quei gesti liturgici – Una
carogna di bambino, come sua madre. Il mio ragazzo non pesca più.
Gli piaceva tanto. Ho provato a regalargli questi stivali nuovi,
perché speravo che si riprendesse un po’ della sua vita. Glielo
dico sempre: “ E’ cattiva, lasciala. Puoi stare con me, finché
non ti sistemi”, ma lui pensa al bambino, a quella carogna di
bambino cattivo come la madre. Non vuole andare a pescare, alla
domenica, dice che deve aiutare quella là a fare le faccende, perché
lei è sempre stanca. Non lavora mica, sa? Quella là è furba! Si fa
mantenere e si lamenta di tutto, e lui ci casca sempre perché è
buono, gli ho sempre insegnato ad essere generoso. Ho cresciuto un
figlio fesso, ecco cos’ho sbagliato! Certo che mio nipote non viene
su fesso come il padre, non è buono come lui! Con tutte le brave
ragazze che gli ronzavano intorno… perché è un bel ragazzo, sa? –
distolse finalmente
gli occhi dal bottone precario del cappotto ed estrasse dalla borsa
una fotografia. Me la mostrò. Si vedeva la donna, vestita con un
accenno di cura, accanto ad una specie di gigante con la faccia
tonda. Per la seconda volta mi stupii della capacità di quella
piccola donna di contenere , o aver contenuto in passato, qualcosa di
così enorme. La donna parve leggermi nel pensiero- E’
un bel ragazzo vero? Pesava quasi cinque chili quando è nato, sa? -
continuavo a non saperlo, ma lo immaginavo – E’
sempre stato un ragazzone, ma quella là non lo fa mica mangiare
bene, sa? quando viene a trovarmi si avventa sui piatti che sembra
affamato. Non capisce che un ragazzone che lavora tanto ha bisogno di
nutrirsi? E’ una donna cattiva, dice che deve stare a dieta, che
sennò ingrassa e il cuore ne soffre. Figurarsi! Il cuore del mio
ragazzo è grande e sano… e che quella pensi a lei, che fuma
continuamente e lo fa soffrire. Era un ragazzo allegro, sa? Ora è
sempre triste, quella là gli ha mangiato l’anima…lei ha ancora
la sua mamma? –
No,
mia madre era morta da qualche anno. Non ci vedevamo mai, lei era
perennemente in viaggio.
-
Sì, certo, ci
vediamo spesso. Gli stampi, infatti, sono suoi. Ne fa collezione, ma
questi li ha doppi. Mamma cucina molto bene, prepara ottimi dolci,
gelati soprattutto – non
ho mai visto mia madre sbattere un uovo, avevamo una domestica fissa
che cucinava per noi. Io ero un ragazzo piuttosto ricco – Io
non sono sposato, non ho trovato la ancora la ragazza giusta. Sono
stato fidanzato, però. Volevo bene a quella ragazza, era una
compagna di scuola. Anche a mamma piaceva molto, ma qualcosa non ha
funzionato. Abbiamo avuto un fidanzamento lungo, forse troppo. Magari
se ci fossimo sposati subito e avessimo avuto dei bambini…- lasciai
intravedere un rimpianto. Io avevo avuto una moglie? Sì, ma era un
po’ puttana. Mi dispiaceva parlarne con quella donna, credevo che
volesse rassicurazioni. – Mio
fratello, invece, è sposato ed ha già tre bambini. Pensi che ha due
anni meno di me! – ma
mio fratello non era in galera? Forse si trattava di un altro – Lui
è stato fortunato, ma forse col tempo anche la moglie di suo figlio
cambierà… pensi che la moglie di mio fratello aveva fama di essere
una poco di buono – ah,
anche questo fratello era incline a mettersi nei guai…- ma
lui non ha mai voluto sentire ragioni. Si è innamorato e le ha dato
fiducia. E’ bello constatare che ha avuto ragione lui… se fosse
stato per me e per mamma, non si sarebbe sposato, ma lui è un tipo
ostinato. Le persone talvolta sono diverse da come sembrano: lei si è
rivelata una bravissima ragazza e un’ottima madre. Lavora, si
occupa della casa e dei bambini ed è sempre allegra…-
-
Suo fratello è fortunato davvero, ma certo che ha rischiato… io lo
sapevo che quella là era una poco di buono, glielo si leggeva in
faccia…-
-
I bambini di mio fratello sono deliziosi! Certe volte quasi lo
invidio. – lui,
non l’altro, quello che sta in galera. Anch’io ho sposato una
poco di buono, che dice di aver avuto un figlio dal mio
commercialista, ma non si sa se è vero. Magari il figlio è mio…
fui colto dall’angoscia – Mi
piacerebbe avere dei bambini, ma solo con la donna giusta – ero
proprio un bravo ragazzo, di solidi principi. Matto come lo zio
pittore, sfortunato con le donne, ma solido.
La
donna continuava a fumare con lentezza, fissando il bottone del
cappotto come se stesse per accadere un fatto irreparabile. Quando i
silenzi tra noi iniziarono ad essere troppo pesanti, decidemmo di
congedarci, in perfetto accordo senza parole.
Possedevo
un paio di mostruosi stivali da pesca e avevo anche un fratello
sistemato.
La
donna possedeva invece alcuni nuovi stampi da dolce di forma
originale: se li avesse tirati in testa alla nuora, forse si sarebbe
sentita meglio.
Durante
il viaggio di ritorno pensai a quella puttana della mia ex-moglie.
Magari il figlio era mio. Avrei dovuto prenderla a schiaffi subito,
ma ero un debole come mio fratello – quello in prigione – e forse
anche un fallito, come il mio zio pittore. Mi sarebbe piaciuto avere
un bambino, ma con la donna giusta, come mio fratello – quello
sistemato.
Scambiai
per mesi ogni sorta di oggetto, ascoltando storie e raccontando le
mie.
Avevo
scoperto che mia madre aveva avuto due mariti, che avevo anche una
sorella che viveva in Australia, che mia nipote era stata selezionata
per un’audizione da un regista senza scrupoli, che la mia gamba
sinistra conteneva più titanio del museo di Bilbao e che mio padre
aveva lavorato in aviazione. La questione con quella puttana della
mia ex- moglie era ancora aperta, lei stava tentando una
riappacificazione. Mio fratello aveva avuto un condono di sei mesi di
pena per buona condotta. Stavo bene. Possedevo oggetti rarissimi, tra
i quali un grammofono, una bicicletta elettrica e una muta da sub da
bambino, che avrei potuto regalare ad uno dei figli dell’altro
fratello.
Avevo
ascoltato decine di sconosciuti raccontare episodi della loro vita e
mi sentivo infinitamente arricchito.
Da
qualche tempo avevo anche smesso di andare in ufficio, lavoravo da
casa. Gli amici di un tempo avevano smesso di telefonarmi: già
sapevano che avevo altro da fare.
Un
giorno, mi decisi a sistemare tutti gli oggetti che avevo accumulato
con gli scambi.
Un
pensiero mi folgorò nella sua semplicità: potevo mettere inserzioni
io, proporre scambi.
Preparai
subito un’inserzione : Cerco
caleidoscopi da collezione in cambio di un grammofono funzionante.
Misi il numero di
cellulare, che cambiai per l’occasione.
Iniziò
una nuova stagione. Ora a me spettava la prima mossa, potevo
raccontare per primo.
Un
giorno, tuttavia, mentre controllavo la mia ultima inserzione, mi
capitò di leggere un annuncio che mi lasciò di stucco: Cambio
chitarra acustica da studio con muta da sub da bambino. Ore serali…
cellulare.
L’uomo
ossessionato dai ricordi era forse morto?
Chiamai.
La voce che mi rispose non era quella dell’uomo, né quella della
moglie, ma mi era ugualmente familiare. Era giovane, quasi allegra.
Fissammo un appuntamento per il giorno successivo in un locale vicino
all’Università.
Quando
l’inserzionista si presentò, riconobbi la ragazza della giacca di
pelle verde. Anche lei mi riconobbe, ma fece finta di niente. La
assecondai. La chitarra era coperta da una custodia di pelle marrone.
Riconobbi anche quella, l’avevo scambiata con le tegole, che ora
appartenevano ad un operaio tunisino che in cambio mi aveva dato una
batteria da auto e una strana storia di due donne scomparse al porto
di Genova. Lui sapeva che mia sorella, prima di trasferirsi in
Australia aveva vissuto in Tunisia tre anni e si era anche sposata
con un ingegnere locale.
La
ragazza si comportò come se non mi avesse mai visto prima. Era molto
allegra.
-
Il mio fidanzato è
un musicista. Stiamo insieme da quando avevamo quindici anni e presto
ci sposeremo. La chitarra non gli serve, gliene ho regalata una
nuova, col mio primo stipendio. Lavoro nella pubblicità, guadagno
molto bene. Mi hanno assunta subito dopo la Laurea, in Scienze delle
Comunicazioni. Ci ho messo tre anni e una sessione a laurearmi, e col
massimo dei voti! –
-
La muta è di mio figlio. E’ cresciuto così in fretta che gli è
durata solo una stagione… con quel che costa! Per fortuna che mia
moglie è bravissima a gestire la casa, una gran risparmiatrice… -
Compresi
tutto.
Il
mio manoscritto è finito, posso mettere l’ultimo punto.
Scambio
breve raccolta di storie con…
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