lunedì 10 febbraio 2014

Veli pindarici

Eccoli, sono tornati.
Li attendevo e finalmente li vedo di nuovo. 

Sono veli sottili, così leggeri ed impalpabili da poterli solo intuire attraverso l'aria perfettamente tersa. 
Sono silenziose pennellate d'acquerello, tenui movimenti di luci opache e radenti.
Godono del favore dei cieli autunnali, al mattino, dopo la pioggia, o dei bagliori di primavere precoci incastonate nel cuore dell'inverno. 
Li precede un presentimento vago che per giorni mi lascia immobile, paralizzata da pretesti al condizionale, incapace di formulare inutili definizioni. 
Tutta la pelle viene carezzata da un'aura quasi impercettibile, che tuttavia si insinua in un corso morbido di palpiti interni. 
Non posso concentrarmi su nulla, solo restare in sensibile attesa del visionario abbandono del quale avverto l'imminente onda.
A volte li chiamo, smanio nel desiderio di esserne rapita nascondendomi in  uno speranzoso dormiveglia, sorrido a me stessa, mi allontano da me e mi guardo, quasi con rancore nel sentirmi limitata, quasi con amore nell'avvertirmi eletta e predestinata ad assistere al prodigio di questo grande, inafferrabile respiro.
Quando giungono posso vederli in ogni elemento: nell'acqua che scorre, nelle  volute di fumo, nelle venature del legno, negli sfioramenti con la punta delle dita di superfici che l'abitudine ha sottratto alla mia coscienza.
Ciò che mi circonda diventa nuovo e inaspettato, ne colgo i dettagli, ne subisco il fascino. 
Luci ed ombre, piccole curve, morbide geometrie, inclinazioni, spessori, vicinanze di oggetti acquistano significati inattesi, svincolati dalle logiche secondo le quali sono stati creati e disposti, assegnando invece al caso il ruolo di protagonista. 
Allora vedo i fili che si intrecciano ad attribuire sostanza a ciò che fino a poco prima sembrava costruita apparenza, si sgretolano vincoli e certezze, a nulla vale cercare nella razionalità alibi per rifiutare questa realtà che si dice distorta pur essendo la sola reale.
Un tempo non era così.
Temevo la venuta di quelli che sentivo oscuri fantasmi. 
Avevo bisogno di angolazioni precise e di archivi ordinati. Non c'erano aure, aliti di brezza, morbide danze, ma fiammate, squarci di luce violenta, contraddizioni che si agitavano in un frenetico sabba del quale sentivo d'essere la vittima, povero essere di viscere scure da strappare come sacrificio a divinità spietate.
Venivo frustata, graffiata, lapidata con pietre pesanti se solo osavo alzare lo sguardo a rivendicare le mie piccole, soggettive, fragili verità.
Non c'era attesa, ma terrore; non desideravo abbandono, ma invocavo di non perdere la forza, banalmente umana, che mi sosteneva a non cedere.
Venivo divorata da un pianto interiore di cui avvertivo i morsi: lo sentivo masticare brandelli di me e scavare, sbranandomi, gallerie che restavano vuote e risuonavano cupe di echi spaventosi.
Mi sentivo nuda e ferita, battuta da piogge pungenti come spine, conficcata in terre desolate nelle quali non volevo affondare. 
C'erano radici prive di linfa e rami secchi da cui la vita defluiva senza possibilità di arrestarla.
Io c'ero, subivo e guardavo impotente ciò che mi stavano facendo gli spettri delle mie negazioni. 
E maschere, sempre: di argilla, di legno, di metallo per le battaglie più dure, si frantumavano, si sfasciavano in schegge, vi si incidevano profonde fratture, ma ce n'erano altre pronte per non mostrare mai un volto che io stessa non potevo più identificare.
Stavo bene, ero perfetta sul palcoscenico del grande teatro, bastava non guardare l'angoscia negli occhi, la curiosità disperata che vi era riflessa, la muta richiesta di aiuto che baluginava ad ogni incontro che speravo speciale.
Stavo bene, indossavo con stile i costumi di scena, attrice di consumato talento, saggia e misurata. 
Le piccole sbavature erano intese come vezzi di interpretazione ma già, per taluni, parevano inaccettabili deragliamenti.
Ma io odiavo i miei ruoli, mi corrodevano come ruggine.
Le tempeste e le lunghe notti di gelo boreale le affrontavo sola e coperta di stracci, violata nella carne viva, procedendo sulle braci, nel fango, nei guadi melmosi, in aride steppe.
Quale aurora mi abbia spinta ad uscirne non lo so.
Ho camminato a lungo sul ciglio oltre il quale c'è l'abisso, la consegna irreversibile all'inferno, la perdita, il dolore distillato e sublimato. 
Non ho fatto il passo fatale, ho solo provato la vertigine della caduta, ho resistito all'attrazione magnetica del vuoto.
Poi ho visto riflessi di luce, compreso i colori, desiderato volare in alto, molto in alto, così lontana da non sentire altro che rarefatto silenzio.

E' così che sono tornata viva e diventata pazza.



3 commenti:

  1. BiBi, cosa pensi de "La grande bellezza" ? Molti dicono un film su Roma, una dolce vita moderna, ma l'altro giorno, passeggiando tra gli alberi di Villa Borghese, guardavo il cane e pensavo che avrebbe potuto essere girato a Bologna, così prodiga di scorci mai tutelati né valorizzati e di presenziasti disperati...un grazie anticipato per il tuo pensiero, se avrai voglia di regalarmelo, e ricambio con un brano di notte serena...Joni Mitchell "Shine"...

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    1. Unnome Datorero, ti rispondo volentieri.
      Premetto che "La grande bellezza" non mi è piaciuto, l'ho trovato un elegante esercizio di stile dei -o sui- soliti intellettuali nullafacenti in crisi di mezza età e di valori, intenti a rimirarsi l'ombelico convinti che sia il centro del mondo, non senza autocompiacimento per la cruda onestà con la quale decretano la propria inutilità. In buona sostanza: irritante.
      il film senza Roma perderebbe, a mio parere, la sua unica e vera grande bellezza.
      Non che Bologna non sia bella, al contrario, ma non possiede la stessa sfacciata e monumentale opulenza, né la stessa abbondanza di marmi, né la stessa massiccia presenza di alti prelati e suore più o meno libertine.
      Bologna ha davvero scorci bellissimi, ma decisamente più discreti.
      Credi che quella splendida terrazza, se fosse affacciata sul ghetto -che io adoro- avrebbe avuto lo stesso impatto simbolico (ammesso che abbia un impatto simbolico, ma siccome tutti ci han trovato di tutto nel film, faccio la dotta pure io)?
      Le solitarie passeggiate di Jep lungo il Tevere, avrebbero fruito della stessa luce radente, riflessa sulle lente acque del fiume - e si sa: πάντα ῥεῖ ώς ποταμός- se fossero state ambientate sotto il lungo portico del Meloncello, o nello splendore medievale delle stradine del vecchio mercato?
      Forse il disperato presenzialismo è il medesimo anche a Bologna, ma questo non sono in grado di dirlo, poiché da tempo immemorabile non frequento più i "salotti buoni", ammesso di averli mai davvero frequentati.
      Mi ci sono sempre annoiata, la mia grande bellezza è sempre stata altrove.

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  2. grazie mille Bi, in un attimo hai buttato lì due o tre location(s) che mi incuriosiscono e che cercherò di visitare quando sarò in zona... brano da ascoltare, Gabin "I gotta go for love"...buona serata

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