Ieri
mi è capitato di leggere una frase del Macbeth di Shakespeare che mi
ha fatto pensare molto: “Date
al dolore la parola; il dolore che non parla, sussurra al cuore
oppresso e gli dice di spezzarsi”.
Non
è nella mia natura parlare pubblicamente del dolore, né del mio né
di altri, ne ho pudore, ne ho un tale rispetto che non voglio
scivolare nella retorica o nell'autocommiserazione, non voglio
adornarlo con orpelli che non gli appartengono, desidero solo
guardarlo così com'è, nudo e crudele e lasciare che ancora una
volta, per quarantotto ore all'anno,
mi scortichi.
Questi
sono
i giorni della muta, le date maledette che devo superare all'inizio
dell'anno per poi continuare a vivere guardando avanti.
Il
6 gennaio di ventisei anni fa è nato Pietro, il mio secondo figlio.
Il
6 gennaio di diciotto anni fa è morta Caterina, mia sorella.
Il
7 gennaio è morto Pietro, a poco più di trenta ore di vita,
prematura e intubata.
L'anno
scorso, il 7 gennaio, è morto mio padre.
Sono
i giorni in cui è avvenuta e si è ripetuta la cesura tra un prima e
un dopo, la stenosi dove ristagna la mia inguaribile malinconia.
Ogni
anno mi riprometto di non pensarci, ma inevitabilmente inciampo nel
primo “se”, quello che dischiude una vita diversa se le cose
fossero andate diversamente.
Non
immagino una vita migliore, solo diversa, dalla quale io sarei uscita
diversa e tutto avrebbe seguito un altro corso.
Anzi,
riguardo a Pietro penso con terrore che se fosse vissuto sarebbe
stato infelice,
oppure
per
miracolo sarebbe
stato bello, forte e sano ma non ci sarebbe stato Eugenio, il mio
terzo figlio, e pensare a una vita senza di lui è ancora più
insopportabile, così mi sento pure in colpa e cerco di risolvere il
problema pensando che li vorrei entrambi, anche se è un'assurdità
persino nel gioco assurdo dei “se”.
E
da quel primo “se” le mie vite ipotetiche del terzo tipo, che non
sono state e non saranno mai, cominciano ad affollarsi nei miei
pensieri, sempre nuove e diverse, e al dolore devo sommare
la nostalgia per quelle tavolate alle quali non si è mai seduta mia
sorella, per quei nipoti che non hanno riempito di allegria la
vecchiaia scontrosa e ostile di mio padre, per case nelle quali non
ho mai vissuto e per tutti gli altri, non meno importati, che mancano
all'appello e
che a quelle tavolate, in quelle case, in mezzo a quelle risate di
bambini, sono seduti accanto a me. Perché
una volta che ho iniziato il gioco a massacrarmi, si apre tutto il
grande baule della sofferenza
E
mi mancano gli sguardi di quel figlio che non ho visto crescere, le
chiacchiere con quella sorella che non ha fatto in tempo a diventare
una donna, i momenti di tenerezza con quel padre che mi ha sempre
fatto soprattutto rabbia e paura, mi
manca lo splendore della mamma che non ha potuto invecchiare e la
levità del padre dei miei figli che non è qui vicino a me a
condividere la loro vita adulta.
Durante
le date maledette più che confrontarmi con la morte – che è già
difficile farlo volta per volta, con una morte sola- diventa un
confronto con la vita, con
le vite.
E
non è certo la finitezza nel tempo che spaventa e addolora, ma
quella nello spazio, la consapevolezza che non abbiamo alcun "se"
da sperimentare, né altre vite possibili se non la nostra.
É il
computo sterile di circostanze nelle quali non ci siamo mai
trovati.
E
finisce che non so se aggrapparmi alla
vita
che ho, che è l'unica vera ed è tanto ricca di bellezza, o frustare
il cielo con la coda come un leone prigioniero per
quelle che non ho avuto, pur con le loro inevitabili miserie,
e sono smarrita, sopraffatta dall'impotenza, da un senso di
ingiustizia così totale e profondo, che al dolore si aggiunge
l'indignazione e piango, piango per ore, piango a caso,
improvvisamente, più mi dico di smettere e più piango finché non
sono esausta e passa.
E
così il cuore non si spezza e riesco persino a fingere indifferenza.
Ma
sì, dai, la vita è questa, nessun'altra, non c'è possibilità di
scelta di fronte alla morte, se non quella di come reagire, non devo
guardare al passato, come sono brava, come sono forte.
Come
sono stanca, invece, della memoria e dell'immaginazione, com'è ingiusto che
le mie più grandi risorse nei giorni maledetti diventino un fardello
e quanto è vulnerabile questo cuore oppresso che devo proteggere.
Questa
volta parlarne era una necessità, piangere non sarebbe bastato a far
sgretolare tutta la montagna del dolore e a ridurla in sabbia
per farla fluire insieme ai giorni consueti.
E
non voglio abbracci o consolazione, ma solo qualcuno a cui dire, che
ascolti, che legga le parole che faccio così fatica a esprimere,
solo perché smettano di sussurrare e mi liberino, almeno un po'.