domenica 23 febbraio 2014

Com'è strano oggi il sole

Ne stanno morendo tanti, uno dopo l’altro.
Stiamo invecchiando noi, stanno invecchiando loro ancora di più, alcuni sono malati, altri vittime di fatalità, come tutti gli esseri umani.
Loro muoiono e con loro se vanno pezzi della nostra vita, quelli che hanno riempito di emozioni e ricordi, quelli che sono legati a una canzone, a un concerto, a un abbraccio, a un’estate di confidenze notturne in riva al mare.
Nel rapporto con la morte c’è sempre una buona parte di egoismo: salvo avere amato tanto chi se ne va, tanto da soffrire per la vita che non vivrà più, quello che sanguina in tutti gli altri casi è sempre lo strappo della perdita nel nostro cuore, quello che mancherà a noi.
Quando muore un artista succede esattamente questo.
Nella musica forse più che in qualsiasi altra arte, l’opera e l’artista sono difficilmente scindibili, si ama così tanto certa musica che si vive nell’illusione che la precarietà umana dell’esistenza dell’artista sia assorbita e annullata dall’eternità dell’opera d’arte, e che entrambi godano di un soffio divino di immortalità.
I musicisti che amiamo sono cristallizzati nelle nostre emozioni, dove anche noi siamo sempre gli stessi, sempre uguali alla prima volta a dispetto delle evidenze, ma in tutto questo non c’è errore, perché davvero ogni volta che la musica torna ad avvolgerci, la puntina scorre in cerchi antichi del nostro tronco che non sono mai stati cancellati.
E se la musica è immortale, se è immortale anche il musicista che l’ha creata, quando la ascoltiamo anche noi lo diventiamo e lo diventano le nostre emozioni.
La morte di un musicista spezza la magia di questa illusione e ci riporta alla realtà.
Questo è il pezzo di vita che se ne va, il doloroso rinnovarsi della perdita del senso di immortalità, quello che stordisce e confonde quando si diventa adulti.
Stordisce e confonde ogni volta la ragazzina di diciassette anni che vive e palpita dentro di me, perché questo io sono ogni volta che mi lascio avvolgere dalla mia musica.

Grazie, Francesco.


lunedì 10 febbraio 2014

Veli pindarici

Eccoli, sono tornati.
Li attendevo e finalmente li vedo di nuovo. 

Sono veli sottili, così leggeri ed impalpabili da poterli solo intuire attraverso l'aria perfettamente tersa. 
Sono silenziose pennellate d'acquerello, tenui movimenti di luci opache e radenti.
Godono del favore dei cieli autunnali, al mattino, dopo la pioggia, o dei bagliori di primavere precoci incastonate nel cuore dell'inverno. 
Li precede un presentimento vago che per giorni mi lascia immobile, paralizzata da pretesti al condizionale, incapace di formulare inutili definizioni. 
Tutta la pelle viene carezzata da un'aura quasi impercettibile, che tuttavia si insinua in un corso morbido di palpiti interni. 
Non posso concentrarmi su nulla, solo restare in sensibile attesa del visionario abbandono del quale avverto l'imminente onda.
A volte li chiamo, smanio nel desiderio di esserne rapita nascondendomi in  uno speranzoso dormiveglia, sorrido a me stessa, mi allontano da me e mi guardo, quasi con rancore nel sentirmi limitata, quasi con amore nell'avvertirmi eletta e predestinata ad assistere al prodigio di questo grande, inafferrabile respiro.
Quando giungono posso vederli in ogni elemento: nell'acqua che scorre, nelle  volute di fumo, nelle venature del legno, negli sfioramenti con la punta delle dita di superfici che l'abitudine ha sottratto alla mia coscienza.
Ciò che mi circonda diventa nuovo e inaspettato, ne colgo i dettagli, ne subisco il fascino. 
Luci ed ombre, piccole curve, morbide geometrie, inclinazioni, spessori, vicinanze di oggetti acquistano significati inattesi, svincolati dalle logiche secondo le quali sono stati creati e disposti, assegnando invece al caso il ruolo di protagonista. 
Allora vedo i fili che si intrecciano ad attribuire sostanza a ciò che fino a poco prima sembrava costruita apparenza, si sgretolano vincoli e certezze, a nulla vale cercare nella razionalità alibi per rifiutare questa realtà che si dice distorta pur essendo la sola reale.
Un tempo non era così.
Temevo la venuta di quelli che sentivo oscuri fantasmi. 
Avevo bisogno di angolazioni precise e di archivi ordinati. Non c'erano aure, aliti di brezza, morbide danze, ma fiammate, squarci di luce violenta, contraddizioni che si agitavano in un frenetico sabba del quale sentivo d'essere la vittima, povero essere di viscere scure da strappare come sacrificio a divinità spietate.
Venivo frustata, graffiata, lapidata con pietre pesanti se solo osavo alzare lo sguardo a rivendicare le mie piccole, soggettive, fragili verità.
Non c'era attesa, ma terrore; non desideravo abbandono, ma invocavo di non perdere la forza, banalmente umana, che mi sosteneva a non cedere.
Venivo divorata da un pianto interiore di cui avvertivo i morsi: lo sentivo masticare brandelli di me e scavare, sbranandomi, gallerie che restavano vuote e risuonavano cupe di echi spaventosi.
Mi sentivo nuda e ferita, battuta da piogge pungenti come spine, conficcata in terre desolate nelle quali non volevo affondare. 
C'erano radici prive di linfa e rami secchi da cui la vita defluiva senza possibilità di arrestarla.
Io c'ero, subivo e guardavo impotente ciò che mi stavano facendo gli spettri delle mie negazioni. 
E maschere, sempre: di argilla, di legno, di metallo per le battaglie più dure, si frantumavano, si sfasciavano in schegge, vi si incidevano profonde fratture, ma ce n'erano altre pronte per non mostrare mai un volto che io stessa non potevo più identificare.
Stavo bene, ero perfetta sul palcoscenico del grande teatro, bastava non guardare l'angoscia negli occhi, la curiosità disperata che vi era riflessa, la muta richiesta di aiuto che baluginava ad ogni incontro che speravo speciale.
Stavo bene, indossavo con stile i costumi di scena, attrice di consumato talento, saggia e misurata. 
Le piccole sbavature erano intese come vezzi di interpretazione ma già, per taluni, parevano inaccettabili deragliamenti.
Ma io odiavo i miei ruoli, mi corrodevano come ruggine.
Le tempeste e le lunghe notti di gelo boreale le affrontavo sola e coperta di stracci, violata nella carne viva, procedendo sulle braci, nel fango, nei guadi melmosi, in aride steppe.
Quale aurora mi abbia spinta ad uscirne non lo so.
Ho camminato a lungo sul ciglio oltre il quale c'è l'abisso, la consegna irreversibile all'inferno, la perdita, il dolore distillato e sublimato. 
Non ho fatto il passo fatale, ho solo provato la vertigine della caduta, ho resistito all'attrazione magnetica del vuoto.
Poi ho visto riflessi di luce, compreso i colori, desiderato volare in alto, molto in alto, così lontana da non sentire altro che rarefatto silenzio.

E' così che sono tornata viva e diventata pazza.