Fino alla fine degli anni Sessanta, Riccione era un posto bellissimo: la spiaggia era molto grande e la zona residenziale prossima al mare era caratterizzata da una serie di vialetti paralleli, molto verdi, pieni di pini, lungo i quali si susseguivano le tipiche villette riccionesi, case ad un piano, con il tetto a punta.
La planimetria delle case era del tutto uniforme: un ingresso costituito da un corridoio piuttosto largo, sul quale si aprivano le camere da letto, una vasta sala da pranzo ed una grande cucina; in fondo al corridoio il bagno; intorno alla casa il giardino di ghiaia ombreggiato dai pini, dai quali ogni tanto cadevano a terra, con grande fragore, enormi pigne colme di pinoli.
Al termine di ogni vialetto c'era un caratteristico muretto, che delimitava la ferrovia, che a sua volta separava la marina dal paese, appannaggio dei riccionesi veraci e zona snobbata dai villeggianti, se non nei giorni di mercato.
Prima di accedere alla spiaggia si doveva attraversare il lungomare, elegantissimo, che tagliava tutta la cittadina balneare trasversalmente.
Riccione aveva conosciuto i massimi fasti nel periodo del fascismo, e ancora ne rimanevano tracce, come testimonianza di un'epoca in cui la buona borghesia intratteneva rapporti sociali eleganti e raffinati, lontana dall’orrore che si stava consumando.
Nell'architettura delle grandi ville sul lungomare si concretizzava il gusto dell’alta società dell'epoca, che aveva rivisitato, solo con piccoli particolari tipici dell'orrido del fascio, le vecchie costruzioni di inizio secolo, splendide dimore Liberty immerse nel verde.
Mussoliniane pure erano invece le Colonie, che tuttavia restavano al margine della zona elegante.
Riccione si estende per un lungo tratto di costa, divisa in varie zone: più a nord, subito dopo le varie frazioni di Rimini, le bruttissime Colonie e un tratto di terra di nessuno, c'è l'Alba, da sempre zona leggermente più popolare, un po' perché la spiaggia era meno vasta, un po' perché più recente e quindi più affollata di alberghi.
Il porto, con tutta la sua flotta di imbarcazioni dei ricchi villeggianti, ha sempre delimitato il confine sud dell'Alba.
In mezzo, tra il porto e la zona d'élite, si trova il centro, che si dipana intorno ai due viali principali, Viale Dante e Viale Ceccarini, da sempre teatro del passeggio pomeridiano, degli aperitivi serali, e degli acquisti nei veri negozi, distinti dai bazaar -nei quali si sono sempre vendute più o meno le stesse cose, che tuttavia sembravano più modeste probabilmente solo per via del prezzo più basso.
La zona a sud di Viale Ceccarinì è ancora la favolosa Abissinia, che ospitò il Duce e tutta la sua corte di gerarchi e di buona borghesia fino dagli anni Venti.
Fino alla fine degli anni Sessanta in Abissinia non esistevano molti alberghi, se non quelli elegantissimi, come il Grand Hotel o il Des Bains, o quelli più moderni affacciati sul lungomare, prestigiosi per la posizione e, di conseguenza, per le frequentazioni.
Lungo i vialetti esistevano invece le pensioni, che godevano di un certo prestigio anch'esse, in quanto caratterizzate da gestione familiare, accoglienza tranquilla, cucina romagnola di ottimo livello e servizi riservati sulla spiaggia. Anzi, per gli habitués era anche una apprezzata forma di snobismo alloggiare in una piccola pensione, probabilmente perché i rapporti personali riuscivano in questo modo a mantenere quella cordialità un po' distante, che le famiglie bene ostentavano con i propri domestici in città.
Altra cosa, infatti, era essere serviti a tavola da una formosa signora Irma, che si faceva chiamare per nome e indossava il grembiule da cucina, rispetto all'avere rapporti formali con asettici e sconosciuti camerieri stagionali.
Un'altra forma di snobismo che Riccione ha mantenuto da allora è l'organizzazione della spiaggia: non ci sono ombrelloni, se non in un'unica fila, quella più prossima alla strada, dove non si respira per l'afa.
A Riccione, come in certe località della Versilia, altrettanto snob, ci sono le tende, lunghe file di riquadri coperti da tendoni sorretti da quattro paletti, di colore diverso per distinguere i Bagni, rigorosamente numerati e altrettanto rigorosamente gestiti dagli stessi bagnini, o dai loro eredi, da oltre cinquant'anni.
Gli habitués, quelli autentici con almeno quarant’anni di soggiorni riccionesi, hanno sempre avuto a noleggio la stessa tenda, ovviamente nella prima fila vicino al mare, naturalmente confinante con quella delle famiglie appartenenti al medesimo branco e, com'è logico, con la stessa dotazione di lettini e sedie - quelle scomodissime da regista, perché la sdraio a Riccione non è mai piaciuta.
Ancora oggi è impossibile far spostare alcune famiglie dalla tenda numero 3 a quella numero 4, perché l'autentico villeggiante riccionese deve sempre poter godere della medesima prospettiva rispetto al mare e alla popolazione dei senza tenda, che al giorno d'oggi costituiscono la maggioranza dei bagnanti, in quantità che diventa inquietante durante i fine settimana.
Naturalmente anche chi prenotava la tenda solo per appoggiare i giocattoli ma trasportava il lettino in riva per godere della brezza marina, come la mia mamma e la mia zia ai tempi delle nostre vacanze dorate, non si spostava mai da quella posizione prossima al bagnasciuga: impensabile un trasloco dalla destra alla sinistra -o viceversa- della passerella che separa a metà la fila delle tende in ogni stabilimento balneare -termine che a Riccione non si è mai usato, sostituito da " Bagno" anche nella pubblica dicitura e nelle piantine per i turisti (per gli habituès gli tutti gli altri sono turisti).
La famiglia di mio padre si era trasferita alla "Perla verde dell'Adriatico" più o meno dopo la fine della guerra, spostandosi dalla Versilia, anzi, per essere precisi, dalla zona tra la Versilia e le Cinque Terre, breve tratto di costa tirrenica cui era originaria la mia nonna paterna, zona se possibile ancora più snob.
Mio padre aveva ricevuto a Riccione la sua prima educazione sentimentale, grazie ad una certa facilità a rapportarsi con le villeggianti tedesche.
Durante la guerra, infatti, il buon rampollo aveva ricevuto le usuali lezioni di pianoforte e di lingua tedesca, che nell'ottica di certe famiglie era destinata a diventare la lingua del futuro. Non si ricordava che una frase, che non saprei scrivere, ma che costituiva un invito diretto a qualche teutonica signorina ad andare con lui a passeggiare.
I miei nonni avevano le loro amicizie, le stesse di Bologna, e mio padre le sue, le stesse di Bologna.
Perché caratteristica dei bolognesi è trasferire tutte le proprie abitudini in qualunque luogo si trovino, altrimenti si perdono.
I nonni affittavano sempre la stessa casa, quella dei Bianchini, in fondo ad un viale bellissimo e molto tranquillo.
Il muretto della ferrovia costituiva uno dei confini del nostro giardino, ma i treni non davano alcun fastidio, in quanto diventavano anch'essi un'abitudine e come tale rassicuravano, si era certi di essere a casa.
Il muretto della ferrovia costituiva uno dei confini del nostro giardino, ma i treni non davano alcun fastidio, in quanto diventavano anch'essi un'abitudine e come tale rassicuravano, si era certi di essere a casa.
La prima volta che sono stata a Riccione ero dentro la pancia della mamma.
La seconda volta, l'anno successivo, avevo cinque mesi.
Di quei primissimi anni non mi restano ricordi, se non quelli delle fotografie, mentre ricordo abbastanza bene l'estate trascorsa con i nonni alla pensione Esedra, l'anno in cui nacque mio fratello.
Veramente mi ricordo solo le situazioni che sono rimaste immortalate nelle foto e l'odore dei baffi del nonno, che era buono e bellissimo e si impomatava capelli e baffi con la brillantina.
L'odore del nonno è uno dei ricordi più belli di tutta la mia infanzia, forse perché lui mi adorava e mi teneva sempre in braccio, coccolandomi e presentandomi in giro come "quel fenomeno della sua nipotina"- una femmina! finalmente, dopo due figli maschi tanto diversi da lui.
Ho solo ricordi dolcissimi di lui, morto quando avevo otto anni, proprio mentre ero in villeggiatura a Riccione, ormai quasi ammattito a causa dei postumi di una ferita di guerra, una scheggia che gli era rimasta piantata nella schiena durante la campagna d'Africa.
Mio nonno mi faceva fotografare sempre, ogni occasione era buona, anche se ero una bimba magra e bruttina.
Sulla spiaggia passavano in continuazione fotografi con ogni sorta di animali: possiedo fotografie con una capra, con due leoncini, con un gruppo di cocker, con una scimmia, a cavalcioni di un enorme elefante di cartapesta, in piedi su un gigantesco drago sempre di cartapesta e, soprattutto le fotografie hawaiane, realizzate dal fotografo di Foto Riccione, vicino ad una finta capanna di giunchi, con un finto tetto di finta paglia, indossando un gonnellino di finte banane, fingendo di suonare una chitarra finta o di assaggiare una finta noce di cocco.
Anche i miei figli sono stati fotografati da quello stesso fotografo nelle medesime pose, ed io stessa ho indossato il gonnellino di finte banane anche da adulta, durante la realizzazione di grottesche foto di gruppo, scattate di fronte ad una folla di curiosi che si sbellicavano dal ridere.
Degli anni successivi mi ricordo i fatti, molto più nitidamente.
Abitavamo sempre nella stessa casa, sempre nello stesso viale ed avevamo un gruppo di amici, tra i quali mio fratello e Libero, che era riccionese, erano i più piccoli e i più feroci.
In una villetta vicina alla nostra abitavano Ottavio e Graziella, due fratelli, credo torinesi, odiosi.
Ottavio, che era il più grande di tutti, organizzava ogni anno una frenetica gara di pinoli, che vinceva regolarmente negandoci l'accesso al suo giardino, sul quale cadeva la più spettacolare quantità di pigne che mente umana potesse immaginare.
Lui e sua sorella si limitavano a raccogliere quello che la vegetazione del viale elargiva loro, mentre noi, poverini, ci sguinzagliavamo in tutti i viali vicini, correndo come forsennati a piedi o in bicicletta, nel vano tentativo di riempire almeno un sacchetto di pinoli grande come quello che esibivano loro.
Devo confessare che io ho sempre avuto il sospetto che Ottavio cominciasse a raccogliere pinoli dai primi di giugno per poterci umiliare alla fine di agosto, epoca della gara, mentre noi - bambini sani- ci facevamo ogni giorno solenni scorpacciate seduti per terra a pestare il guscio dei pinoli coi sassi.
Le gare finirono quando qualcuno, forse io stessa, accusò pubblicamente Ottavio di barare e lui se ne risentì molto, mentre quel castoro di sua sorella piangeva disperata, sentendosi probabilmente smascherata.
Poi ricordo la rete di recinzione del giardino: mia zia con le mie cugine abitavano in una casa nel viale parallelo al nostro, nell'identica posizione rispetto alla ferrovia, in modo che la schiena di casa nostra si appoggiava sulla schiena di casa loro.
Praticando un buco nella rete di recinzione, mio fratello ed io ci trovavamo nel giardino delle nostre cugine, situato nell'altro viale.
Quanto ci siamo sentiti furbi!
Passare attraverso la rete, prima che ci scoprissero, ci dava la sensazione di essere folletti, che potevano sbucare di qua o di là passando attraverso la materia.
Il trucco fu scoperto abbastanza in fretta, ci prendemmo una solenne dose di scapaccioni, ma la breccia nella rete non fu mai più chiusa, anzi, venne ufficialmente aperto un passaggio per consentire alla mamma e alla zia di passare liberamente da una casa all'altra.
Un altro punto di riferimento era il muretto della ferrovia, sul quale potevamo salire a cavalcioni, con maggiore agilità ad ogni anno che passava.
Esisteva il veto assoluto di scavalcarlo e di avvicinarci alle rotaie, cosa che noi facevamo sistematicamente, dando conferma a tutte le teorie che affermano che se vuoi che un bambino metta in atto un comportamento scorretto, pericoloso o quant'altro, il modo migliore è imporgli il divieto assoluto di farlo.
Ad un certo punto però, mio fratello, Libero e mia cugina Silvia, i più piccoli, cominciarono a mettere grandi sassi sulle rotaie, aspettando con ansia di veder deragliare i treni stando seduti sul muretto: grazie al cielo questi tentativi di strage erano attuati nella maniera goffa dei bambini, nessun sasso schizzò mai dalle rotaie alla testa dei tre piccoli delinquenti e un solerte controllore venne a fare un serio discorso con le madri dei suddetti delinquenti, che si presero, come al solito, un rosario di scapaccioni.
All'epoca le prendevamo spesso.
Abbiamo anche guardato la luna a cavallo del muretto di Riccione, quando Armstrong vi ha posato piede il giorno successivo al settimo compleanno di mio fratello: eravamo gli unici a guardare quel faccione luminoso e sorridente, mentre tutti gli altri erano in casa incollati davanti al televisore.
Mio fratello ed io abbiamo sentito un grande urlo collettivo, mentre guardavamo il cielo rapiti dall'idea che qualcuno stesse passeggiando lassù.
L'ultimo splendido ricordo riccionese della mia infanzia è quello del pranzo in spiaggia.
La mamma e la zia, dopo confabulazioni segretissime, alla sera ci preannunciavano che all'indomani, come premio per la nostra bontà, sperata ma mai ottenuta, avremmo fatto un picnic in spiaggia.
La notte ci prendeva una eccitazione da non dormire.
Alla mattina presto, mentre una delle due sorelle andava a fare la spesa, l'altra si occupava dei bambini e cuoceva le frittate, che dovevano riempire una parte dei panini destinati al pranzo.
Seguiva un rituale di preparazione dei panini con ogni sorta di farcitura, della frutta lavata e tenuta in acqua e ghiaccio, dei sacchetti che venivano riempiti e che nascondevano queste vivande un po' segrete, un po' conosciute e attese, che comunque sempre ci lasciavano stupefatti per varietà e abbondanza.
Accampati sotto la tenda ci abbuffavamo di tutta questa ricchezza, guardando l'enorme spiaggia vuota, il mare che allora era pulito, la distesa di tende gonfiate dal vento del primo pomeriggio e ci sembrava che tutto questo fosse solo nostro, che noi fossimo i padroni di quel mondo dorato, di quelle mamme buonissime, di quei rituali che avrebbero dovuto fermare il tempo.
Invece il tempo è andato avanti, la zia è morta a Riccione ventisei anni fa, neanche cinquantenne, la mia mamma cinque anni dopo, il mare è sporco, Riccione è piena di gente, non appartiene più a nessuno, neppure a quelli che si ostinano a non cambiare la loro posizione sulla spiaggia, neppure alle amiche della mamma e della zia, che continuano ad andare lì a far finta di fare le stesse cose, e che quando ci andavo ancora, ogni volta che mi incontravano mi dicevano che quando sono con i miei figli sono uguale alla mamma e, regolarmente, ad ogni picnic in spiaggia, realizzato consumando le ottime piadine del bar, mi facevano piangere parlandomi di lei.
Non riesco più a restare a Riccione molto a lungo, ogni volta che ci vado dentro di me si riapre un grande libro di ricordi che mi spacca il cuore, ma dopo poco vorrei fuggire.
Un tempo andavo ogni stagione a fare il pellegrinaggio davanti alla casa dei Bianchini, ora restaurata, e alla casa dove abitavano la zia e le mie cugine, occupata da chiassosi venditori di cocco che l'avevano completamente distrutta.
Per tanti anni ci sono andata con i miei figli piccoli, volevo cercare di lasciare loro un po’ di ricordi così belli, ma gli ho potuto offrire solo un enorme ed orribile carnaio.
Eppure loro hanno sempre amato moltissimo Riccione perché, evidentemente, non è tanto importante quello che vedi, ma gli occhi con cui lo guardi.
Riccione, 1964 Mamma, Cecco ed io |
<un grazie a Fabio, il mio meraviglioso amico per il quale questo ricordo è stato scritto, sotto forma di lettera>